Per mesi si è parlato degli esordienti che avrebbero pubblicato a inizio 2011. Barbara Di Gregorio per Rizzoli, Alessia Gazzola per Longanesi, Andrés Beltrami per Fandango, Alessandro Mari per Feltrinelli, Donatella Di Pietrantonio per Elliot, Mariapia Veladiano e Paolo Sortino per Einaudi. Fino a gennaio si è disquisito su quale casa editrice avesse l’autore più fotogenico, quello più giovane o meno giovane (guai a stare nel mezzo), si è detto molto del percorso che ha portato ognuno alla pubblicazione; quasi tutti, a turno, sono stati etichettati come caso editoriale dell’anno. Intanto, di cosa ci fosse davvero dentro questi annunciati casi editoriali, si sapeva poco. Poi, uno dopo l’altro, i romanzi hanno iniziato a prendere posto su scaffali e vetrine delle librerie (solo per Sortino bisognerà ancora aspettare un po’), di alcuni si è continuato a parlare, altri sono usciti in sordina.
Tra tutti, Viola Di Grado è probabilmente quella che ha ricevuto più attenzioni, sia prima di gennaio (esiste qualcuno che non ha pubblicato la sua foto in cui appare col cappuccio rosa e i capelli biondi che scendono sul vestitino nero?), che dopo gennaio, quando il contenuto del libro ha finalmente preso il sopravvento sull’interesse per l’immagine e l’età dell’autrice.
Settanta acrilico trenta lana, ancor prima che un romanzo su cui e/o ha lavorato bene a livello mediatico, è un ottimo esordio. Basta poco per mettere da parte tutte le chiacchiere ed essere scagliati a Christopher Road, Leeds: «Sulla destra potete ammirare il fish & chips a sole tre sterline Da Tom […] a sinistra pizza solo una sterlina Da Nino, e laggiù i polli al bambù e le alghe fritte di quel cinese che resta aperto tutta la notte».
Camelia indossa i vestiti nuovi ma difettosi che trova nel cassonetto vicino casa, vive con la madre, il padre è morto da qualche anno: un attimo prima stava facendo sesso in auto con l’amante, un attimo dopo l’auto era precipitata in un burrone. Da allora, Leeds è intrappolata in un dicembre senza fine, Camelia ha abbandonato l’università, la madre non parla, non esce: tutto quello che fa è scattare fotografie ai buchi. Scarico della doccia e cose così. In casa non si comunica nemmeno a gesti, solo attraverso sguardi. C’è lo sguardo Mamma smettila di torturare il pappagallo non è colpa sua se la nostra vita fa schifo!, lo sguardo Stai zitta!, c’è lo sguardo A me il sole non interessa, c’è perfino lo sguardo Non usare questo sguardo con me! I problemi di comunicazione di Camelia non sono limitati alle mura domestiche, anche fuori nessuno sembra capirla. A niente servono il suo italiano né il suo inglese, solo a farle trovare lavoro come traduttrice di manuali per lavatrici.
Questo fino a quando conosce Wen, il ragazzo che lavora nel piccolo negozio da cui provengono i vestiti che Camelia indossa. Wen le dà lezioni di cinese, iniziano a vedersi sempre più spesso. Il tempo ricomincia a scorrere, a dicembre segue gennaio, febbraio, arriva perfino la primavera. Leeds acquista colore, diventa viva.
Non la spara grossa la bandella quando parla di romanzo che riesce «a mantenere intatta la forza dell’ispirazione poetica senza rinunciare a raccontare una storia». Alla ricerca stilistica si accosta da subito la cura nella costruzione di un’atmosfera cupa, di una Leeds in cui i protagonisti, ognuno impegnato in un proprio percorso di elaborazione del lutto e di convivenza col dolore, sono come avvolti da una nebbia che li separa dal resto del mondo. Viola Di Grado fa un ampio uso di figure retoriche, a volte calca troppo la mano con frasi come «Chiusi gli occhi e implorai un’eutanasia cosmica», a volte diventa ridondante (dopo la splendida descrizione iniziale, abbiamo così chiaro il luogo in cui si svolge la vicenda che l’insistenza sul sole pallido e su altri dettagli risulta superflua, appesantisce), ma sono solo trascurabili ingenuità.
Nelle prime cento pagine si gettano le basi per rendere verosimile una vicenda originale e stramba, si insiste a ragione sul valore simbolico del buco (che ritorna ossessivamente sotto diverse forme) come vuoto dentro cui sprofondare e perdersi, si avvia una riflessione sul linguaggio che, forzando il paragone, ricorda in parte quanto fatto in un romanzo completamente diverso e che è senza dubbio il miglior esordio degli ultimi anni: Il tempo materiale, di Giorgio Vasta. Se i bambini di Vasta rinunciano progressivamente alla lingua propria della loro età, abbracciando prima il lessico brigatista ed elaborando poi un loro linguaggio muto fatto di gesti e segni personalissimi, i protagonisti di Settanta acrilico trenta lana fanno un’operazione simile, superano barriere linguistiche che in realtà hanno creato da soli, cercano con avidità nuove forme per comunicare, esprimere il loro dolore.
Fino a pagina cento il romanzo funziona benissimo, qualche difficoltà si avverte appena si arriva al secondo punto di svolta, quando Camelia si vede rifiutare da Wen e inizia una relazione morbosa col fratello strano di quest’ultimo, Jimmy. Restano tante belle immagini, si invertono in maniera convincente le posizioni di Camelia e della madre, con la prima rigettata a forza nel baratro mentre l’altra sembra riemergere di colpo, si raggiunge il finale senza sforzo; ma c’erano così tante premesse (e promesse) nella fase di preparazione, che la scelta di poggiare da questo momento in poi l’intreccio fondamentalmente su due domande – «Perché Wen non vuole fare sesso con Camelia?» e «Cos’è successo all’ex ragazza di Wen, è stata davvero uccisa?» – non lascia del tutto soddisfatti. A maggior ragione se si considera che almeno la risposta al primo «mistero» è abbastanza intuitiva. Non che la seconda parte non regga, semplicemente si percepisce una leggera flessione rispetto a quanto c’è prima.
Per una volta, sapere che chi ha scritto ha soli ventitré anni è davvero utile per ragionare sulle sue potenzialità e per dare il giusto valore a eventuali piccole sbavature. Allora lasciamo perdere i paragoni con la Nothomb, quelli con la Ferrante e soprattutto con la Santacroce (anzi, speriamo che Viola Di Grado sappia tenersi a distanza di sicurezza dai deliri di quest’ultima); in attesa di una nuova prova, Settanta acrilico trenta lana e la sua autrice meritano tutte le attenzioni e gli elogi che hanno ricevuto finora.