Forse è merito del rap, con le sue rime e i giochi di parole, o forse è persino merito di Instagram, che alla lunghezza preferisce una brevità un po’ sapienziale, forse è perché la complessità dell’esistenza è difficile da spiegare, allora è meglio provare a suggerirla, a leggerla tra gli spazi, forse è per tutti questi motivi e per nessuno, ma negli ultimi anni alla poesia è successo qualcosa.
Da genere un poco complicato, ritenuto erroneamente buono per gli ingenui e gli innamorati, la poesia si è trasformata in un’arma incandescente nelle mani di uomini, donne, di scrittori giovanissimi e arrabbiati, diventando una forma letteraria sempre più rilevante e, soprattutto, sempre più letta.
Il fenomeno, certo, è più nordamericano che europeo - e tantomeno italiano -, ma ci racconta di un desiderio di riscrittura del presente e delle sue mitologie, del bisogno di messa in discussione delle genealogie nazionali e dei canti a loro dedicati, pieno di voci vibranti ed elettriche.
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Da Citizen di Claudia Rankine (in Italia, 66th&2nd) alle poesie di Warshan Shire che Beyoncé sceglie per Lemonade (la cosa più viva e vicina a Sylvia Plath letta in anni), a Kate Tempest (Let them eat chaos e altri, per e/o), passando per il postmodernismo di Kendrick Lamar che gli è valso un Pulitzer, questi autori scrivono poesia come si scrivono inni per le guerre, ricuciono panorami e ampliano le influenze letterarie.