Quando non ce l'aspettiamo, quanto tempo ci vuole per sentire la morte che arriva? Sono le undici e venticinque, forse le undici e ventotto, del 7 gennaio 2015: il tempo sparisce nel momento in cui cerchiamo di raccontarlo, nell'inutile tentativo di ricostruirne ogni secondo. Philippe Lançon si alza, infila il suo cappotto; deve andare alla sede di Libération per scrivere un pezzo su La dodicesima notte, la pièce shakespeariana vista la sera prima in un teatro di Ivry, nella periferia parigina. La sala nella quale si è appena tenuta la riunione di redazione è piccolissima, come l'edificio che la ospita, come la via nella quale è situato l'edificio. Le parole sembrano correre come cani affamati da una bocca all'altra, nel migliore dei casi trovano una preda, nel peggiore si perdono tra un bicchiere di plastica vuoto e un foglio unto e scarabocchiato. Qualcuno fa una battuta, l'ennesima, seguono dei sorrisi, poi un rumore sordo, improvviso, «come di un petardo, e le prime grida all'ingresso a interrompere il flusso delle nostre battute e delle nostre vite» (Philippe Lançon, Le lambeau, Gallimard, 2018, p. 74). Eppure all'inizio l'impressione è quella di trovarsi al centro di una farsa, di essere diventati da un momento all'altro dei piccoli personaggi prigionieri di un disegno, senza sapere chi tiene in mano la matita.
L'irruzione della violenza isola dal mondo e dagli altri colui che la subisce, così Lançon, presente nei locali di Charlie Hebdo il giorno dell'attentato perpetrato dai fratelli Kouachi, già sembra non vedere più niente e nessuno: l'unica sensazione possibile è quella di avvertire una vaga personificazione della violenza: «Sentivo sempre meglio il rumore secco delle pallottole, una per una, poi mi sono inginocchiato, quindi sdraiato lentamente, quasi con cura» (p. 77) perché non doveva farsi male. È facendo quel movimento che le pallottole lo raggiungono all'altezza della mascella, tre volte; ma lui non sente niente, non ne ha coscienza, «l'idea della ferita non aveva ancora percorso il suo cammino fino a me» (p. 78).
Adesso Lançon è di nuovo bambino, gioca a fare il morto; davanti agli occhi ha due gambe nere che si muovono agilmente in un ambiente angusto e improvvisamente statico, e un corpo, quello di Bernard Maris, dalla cui testa fuoriescono sangue e grumi di cervello. Le due gambe vedranno Lançon? Gli daranno il colpo di grazia? «Mi sentivo vivo e quasi già morto, l'uno e l'altro, l'uno nell'altro, imprigionato nello sguardo e nel respiro del terrorista» (p. 79), che nel frattempo si allontana verso l'uscita. Tutto allora diventa silenzioso, la pace scende nella piccola sala, e il silenzio si mette a fabbricare il tempo e, tra i morti e i feriti, le prime forme di sopravvivenza.
La coscienza di essere vittima di un attentato non è immediata per Lançon, perché in quel momento non è solo l'immaginazione a essere superata dalla veemenza improvvisa dell'evento, ma anche le sensazioni, nonché la capacità di percezione della realtà che ci circonda. Così la visione del superstite sembra ridotta a un vuoto che nasce e che si espande, ai morti che si tengono per mano in una specie di danza macabra, a un niente inimmaginabile: «Ero un sopravvissuto? Un revenant? Dov'erano la morte, la vita? E cosa restava di me?» (p. 82). Lançon poco a poco inizia a intravvedere corpi vivi, in movimento, come quello della disegnatrice Coco; è a lei che porge il suo telefono per avvisare la famiglia, ed è in quel momento che, per la prima volta, s'intravvede riflesso sullo schermo: «Al posto del mento e della parte inferiore del labbro non c'era un buco ma un cratere di carne distrutta, pendente, che sembrava essere stata messa lì dalla mano di un pittore infantile. [...] Ciò che restava di gengive e dentatura era messo a nudo e l'insieme faceva di me un mostro» (p. 92). La violenza aveva pervertito quello che non aveva distrutto, come una tempesta.
In Le lambeau (Il lembo) non siamo di fronte alla solita testimonianza dell'attentato. Per Philippe Lançon, scrittore e giornalista a Libération e a Charlie Hebdo, il racconto dell'attentato che apre il libro è un espediente narrativo che, attraverso la deflagrazione della violenza e l'incombere della morte, ci porta nel vero centro nevralgico di questa narrazione autobiografica: la storia di una degenza, la storia della ricostruzione di una mascella e di un corpo; il romanzo di una metamorfosi. Sì, perché l'8 gennaio 2015 Lançon, svegliandosi da sogni agitati, «si trovò trasformato nel suo letto»: non in un insetto immondo, come successe a Gregor Samsa, ma in una specie di mostro discreto, con la parte inferiore del viso, le braccia e le mani avvolte nelle garze, e il corpo coperto da un lenzuolo giallo sconosciuto: «Mi ci è voluto qualche secondo per capire» (p. 114); non solo per capire dove si trovava, altresì per cogliere che quel risveglio metteva fine a cinquantuno anni di esistenza, capolinea di un percorso che terminava in quell'esatto istante e che lo lanciava nell'indefinitezza del futuro prossimo: «Ero un ferito di guerra in un paese in pace e mi sono sentito smarrito» (p. 109).
L'autore francese racconta di un'alterità vissuta nella propria pelle e dà il via, attraverso la scrittura, a un processo di riappropriazione del sé che corrisponde in realtà alla costruzione di un nuovo sé, visto che l'altro è stato polverizzato dall'evento. Lançon riprende subito a scrivere, a pochi giorni dall'attentato e dal primo intervento chirurgico (ne seguiranno altri sedici), per protestare ma anche e soprattutto per accettare e prendere atto: «Il corpo ha subito una metamorfosi brutale e irreversibile. [...] La folle abitudine di scrivere riprende i suoi diritti e s'impone al corpo ferito, alla morfina, a ogni deriva, a tutto» (p. 129).
In seguito a un duello l'eroe di Voyage autour de ma chambre di Xavier De Maistre (1794) accompagna il lettore nella sua stanza per 42 giorni; Lançon lo supera, trascinando il lettore in quattro stanze differenti di due distinti ospedali, per ben 282 giorni: dal 7 gennaio 2015 al 17 ottobre 2015. Ripensa spesso, intubato nella camera 106 della Salpetrière, alla frase di Pascal: «Tout le malheur des hommes vient de ce qu'ils ne savent pas rester au repos dans une chambre»; eppure sembra provare una certa felicità a ritrovarsi in quella stanza senza telefono, televisione e radio, sotto la sorveglianza continua della polizia, con visite sistematicamente filtrate. Il senso della lotta si era semplificato: «Era la felicità fragile di un piccolo re impotente, immobile e improvvisato, ma malgrado tutto un re. [...] La felicità di un re che alla fine non doveva rendere conto che a un solo dio, il suo chirurgo, e a un solo Santo Spirito, la sua salute» (p. 133).
Per Lançon lo stato del suo corpo diventa una «scomodità», perché riducendo la parola si riduce anche il dolore che l'accompagna, mentre lui non si considera né prigioniero né malato, bensì una vittima, un ferito che vorrebbe «restare nei miei ospedali il più a lungo possibile. Mi proteggevano e mi salvavano da un male che avevo grandi difficoltà a capire e al quale non volevo né potevo opporre alcun furore». (p. 137). Che cos'è quel male da cui cercare protezione? Come identificarlo? È solo grazie alla quotidianità ospedaliera che l'autore riesce a familiarizzare con ciò che è successo, e se l'ospedale diventa una casa, la stanza sarà la sua capanna, il solo luogo in cui sentirsi protetto, un'alcova caratterizzata dalla familiarità e dall'orizzonte ridotto. Lançon, con dolorosa lucidità, racconta dall'interno le dinamiche codificate della vita nosocomiale, là dove il paziente lotta, sopravvive e muore e gli altri, i visitatori e le loro vite ordinarie, sembrano solo comparse: «Ci pensavo poco: quello che succedeva al di là della mia porta e dell'ascensore apparteneva a un mondo che mi sembrava sempre più lontano, improbabile. Le persone avevano di sicuro delle vite, fuori, ma quelle vite erano scomparse. [...] Non riuscivo più a immaginarle fuori da questo cerchio ridotto della mia vita» (p. 139).
«Ogni uomo è nella sua notte» scriveva Corneille, e in quel regno fuori dal tempo il narratore racconta di camere chiuse e di rapporti quasi inesistenti tra i pazienti, in un reparto in cui i volti sono tutti deformati e ognuno sembra essere lo specchio dell'altro. Di conseguenza il paziente, avvolto nel proprio dolore e nelle proprie peripezie, è vittima dei suoi fantasmi, come succede a Lançon: «È forse questo essere pazzi: essere prigionieri a perpetuità dell'avvenimento crudele e impensabile che, egli crede, l'ha fondato» (p. 210). Entrato in una pericolosa no man's land riesce a uscirne solamente grazie a Christian, il «brother morphine».
Oppure attraverso la scrittura, che permette all'autore uno sdoppiamento indispensabile: «Scrivere sul mio caso personale era il modo migliore di comprenderlo, di assimilarlo, ma anche di pensare ad altro – perché colui che scriveva non era più, per qualche minuto, per un'ora, il paziente del quale scriveva: era il reporter e il cronista di una ricostruzione» (p. 365). Lançon scrive, dal letto, con tre dita, poi cinque, poi sette, con la mascella bucata poi ricostituita, e non è più il paziente che descrive: è un uomo che rivela quel paziente osservandolo, e che racconta la sua storia con l'intento di condividerla. «Diventavo una finzione» afferma il narratore, che non ha più accesso all'immaginazione perché è impossibilitato a mettere da parte ciò che lo ha così violentemente trasformato: ma la separazione tra finzione non-finzione è ormai vana, e «Ciò che contava era la sensazione di verità e il sentimento di libertà dati a colui che scriveva e a colui che leggeva. Era la realtà, era assurda ed ero libero» (p. 366). Un sentimento di libertà che s'interrompe quando il paziente risuscita in mezzo alle parole e riprende in mano le redini, imprigionando momentaneamente il sortilegio della scrittura.
E in quei momenti è la letteratura a venire in suo soccorso, in particolare le Lettere a Milena di Kafka, la Recherche proustiana e La Montagna incantata di Thomas Mann: «Non avevo più la forza di leggerla, ma mi facevo guidare dal suo lento ricordo» (p. 386). I paesi lontani della letteratura aiutano il degente di lungo corso a ricostituire «in parallelo al mio viso e al mio corpo, i personaggi che la abitavano, e che avevano appena bisogno della loro culla testuale per vivere qui, nella mia stanza, come angeli custodi» (p. 386). Più degli altri ripercorre i testi di Kafka, perché in lui tutto è malattia, e l'inferno resta intatto nella sua magnificenza. Le frasi di Kafka gli servono da breviario, e da viatico, fissandogli due orizzonti essenziali: il primo è quello di non cedere alla tristezza, alla collera, di non essere ossessionato dalla distruzione di un inferno dal quale è impossibile scappare, perché non si può eliminare la violenza che abbiamo subito. Il secondo è quello di imparare a convivere con la violenza stessa, familiarizzando con lei per trovare, come diceva Kafka, più dolcezza possibile: «L'ospedale era diventato il mio giardino [...], sentivo che la dolcezza kafkiana esisteva, ma che non era più morbida di una pietra e che trovarla dipendeva da me» (p. 385).
Dopo numerose operazioni per ricostruire la mascella mutilata, anche attraverso prelievi di ossa e tessuti da altre parti del corpo, Lançon impara a pensare il proprio corpo in maniera diversa, immaginandosi come un Arlecchino disegnato da Picasso: «Il momento delicato [...] è quello in cui il paziente riprende coscienza del suo corpo metamorfizzato nel mondo vivente che lo circonda. È allora che comincia realmente a rinascere» (p. 415). Una rinascita che dall'inferno lo porterà nel bagno freddo del purgatorio, che a tratti non sembra per nulla migliore: «Piango sulla mia vita perduta, sulla mia vita futura, sulla mia vita oscura» (Ibid.).
Il racconto di Lançon si conclude come si era aperto: con un altro attentato. Il 13 novembre 2015 l'ex paziente passeggia per Wall Street con la sua compagna Gabriela. Un messaggio di un collega lo avvisa dell'attacco al Bataclan: «Era di nuovo, come al risveglio dopo l'attentato, uno scollamento di coscienza, e ho sentito che tutto ricominciava» (p. 509). Che tutto continuava, in lui e attorno a lui.
Le lambeau, che ha avuto un notevole successo di pubblico e di critica in Francia, parla di una cesura, e di ciò che è avvenuto dopo. Un testo che ricostruisce i fili di una ferita trasponendo un trauma collettivo all'interno di un corpo solo. Si tratta di un testo che diventa quasi romanzo psicologico o di (ri)formazione, con una scrittura non scevra di alti momenti poetici e di una chiara preoccupazione estetica. Un racconto che talvolta si sofferma fin troppo nel micro-dettaglio, facendo perdere d'intensità al narrato; ma in fondo una testimonianza fondamentale di un tempo innominabile. Se il successo riscosso in Francia ne attesta l'importanza testimoniale e letteraria, tale consacrazione sembra dettata in parte da un coinvolgimento emozionale ancora forte (di pubblico e critica) rispetto agli eventi raccontati. Forse allora, il vero valore letterario di Le lambeau lo coglieremo tra alcuni anni, auspicandoci che il tempo renda possibile l'indispensabile distanziazione critica di cui necessitiamo; quando avremo familiarizzato con ciò che ci ha così violentemente trasformato.
*Tutte le traduzioni sono mie