All’inizio della Vita bugiarda degli adulti, la tredicenne Giovanna scopre che il padre Andrea, che lei venera da sempre, la considera brutta. Alla fine del romanzo l’uomo di cui Giovanna si innamora, Roberto, le dirà che invece «è molto bella». Nello spazio narrativo che intercorre fra i due episodi Elena Ferrante organizza quella che si può considerare una variazione su un tema dell’Amica geniale: la storia di un’adolescenza, che nella Vita bugiarda, ancora più marcatamente che nella quadrilogia, è anche la storia di una formazione (nel senso di una scoperta del lato inautentico della vita adulta), e insieme di una rivolta. Quella di Giovanna si profila come una ribellione alla vita stessa come camuffamento e menzogna, alla ricerca di una verità identificata col disordine; ma prima ancora, nella riscoperta di radici popolari e viscerali, prende la forma di una disubbidienza alla propria formazione piccolo-borghese, orchestrata da genitori ipocriti, deboli e arrampicatori. Questi due piani, com’è tipico di Ferrante, fanno presto a mescolarsi: la tendenza all’affresco corale, insieme all’enfasi sull’incongruenza dell’agire umano e a una generale volontà autodistruttiva, costituisce un tratto comune all’Amica geniale. Se dapprima Giovanna subisce il conflitto tra i suoi familiari, da un certo punto in poi comincia a sobillarlo, perché intuisce che la verità risiede proprio nella violenza dei rapporti («Certe volte sentivo che se avessero smesso di odiarsi, io stessa avrei fatto in modo che ricominciassero»).
L’ambientazione del racconto traduce plasticamente la lotta di classe: da un lato la Napoli borghese del Vomero, dove abita Giovanna (e accanto quella più borghese ancora di Posillipo, dove Andrea finirà col trasferirsi); dall’altra la Napoli proletaria del Pascone – la zona industriale in cui Roberto è cresciuto e in cui soprattutto giganteggia Vittoria, che di Andrea è sorella e nemesi. Eccezionale, Vittoria, anche perché è un’adulta che non mente: il suo coraggio, la sua durezza, la sua stessa ambivalenza (per la compresenza di audacia e ripugnanza) le permettono di traghettare la nipote nei territori della disillusione, già percorsi nella quadrilogia: Giovanna tentata dall’inappartenenza come Elena, attratta dall’abisso come Lila. Del resto anche questo nuovo romanzo si struttura come i precedenti attorno a simmetrie e rovesciamenti, semplici ma efficaci; ad attraversarli, collegando i personaggi più diversi, c’è l’elemento ulteriore, e quasi fiabesco, rappresentato da un oggetto magico, catalizzatore di malasorte e di mistero: un braccialetto che passa di polso in polso, col compito di abolire le distanze e far coincidere gli opposti («Vittoria e Costanza erano donne così diverse… eppure il braccialetto me le spingeva l’una nell’altra e me le confondeva, confondendomi»).
Come si sarà capito da questa sintesi brutale, La vita bugiarda degli adulti conferma il profilo di Elena Ferrante come la quadrilogia lo aveva delineato; anche se forse, in questa versione stringata e più tagliente, l’avvicina alla tradizione romanzesca. Romanzesco nel senso di avventuroso, innanzitutto – Ferrante non scommette sulla singola frase o sulla pagina, lavora sui personaggi, sulle trame, sui colpi di scena: nella Vita, come nell’Amica geniale, sono sempre calcolatissimi e sovraccarichi di suspense i finali dei capitoli. Ma soprattutto è romanzesca, nel fondo, la poetica di Elena Ferrante (e questo nonostante le strizzate d’occhio al melodramma e alla serialità televisiva): le azioni dei personaggi prendono tutto lo spazio del racconto, ma risultano spesso opache e indecifrabili – proprio per questo disvelano la spinta decisiva delle forze più profonde e oscure della psiche contro le menzogne della società (esemplari alcuni omaggi espliciti, nel libro, a spietati psicologi come Proust e Morante). Ferrante indaga la natura umana, non crede più di tanto nella storia; ma non per questo si accontenta della superficie. La vicenda narrata non si lascia collocare in un’epoca precisa, aspira a confrontarsi con gli archetipi più che con la cronaca; e le riuscite migliori affondano nel paradosso, attengono alla nevrosi. Giovanna si libera del padre solo per rimpiazzarlo con una seconda figura paterna (Roberto); Giovanna conosce gli uomini rinunciando alla sessualità regressiva, polimorfa, latentemente omoerotica che le viene naturale - salvo scoprire che mentre questa è appagante, quella adulta ed etero è sempre stomachevole («i maschi, sembra di stare nel cesso di un treno»; «l’amore è opaco come i vetri delle finestre dei cessi»).
Il ricorrere a poche, insistite metafore è forse un limite di questa scrittura: la tendenza a ripetere cursus e clausole, a insistere su ambienti e tipi e stratagemmi, abilmente maneggiati, ma circoscritti. Analogamente per la lingua, specialmente nei dialoghi: l’abitudine di ’citare’ il dialetto senza neanche provare a reinventarlo segnala una difficoltà di mimesi che è insufficienza d’ascolto, in contrasto con l’adesione sbandierata all’ethos popolare. Troppo spesso parlanti plebei si esprimono come libri stampati («Roberto è una persona affabile»). Elena Ferrante continua a suscitare nei mass media reazioni estreme, di adesione entusiastica o di feroce insofferenza: tutte cose che non c’entrano molto con la sua letteratura, che è sicura ma prudente. La vita bugiarda degli adulti ci induce a interrogarla sulla sua concreta posizione di scrittore: capace di affondi persuasivi ma non priva di zone d’ombra, e di strane rinunce. Ferrante andrebbe letta e discussa criticamente, senza pregiudizi: nelle sue abilità di narratrice problematica e acuta, nelle inibizioni stilistiche che non solo non nasconde, ma nemmeno pare intenzionata a superare.