Nel romanzo di esordio di Katie Williams, La macchina della felicità, la tecnologia è protagonista. Al centro di tutto però c’è una donna, Pearl, il cui lavoro è rendere felici le persone usando una macchina della felicità, Apricity, un device attraverso il quale Pearl riesce a fornire ai suoi clienti istruzioni personalizzate per migliorare le loro vite ed essere finalmente felici, seguendo alcuni piccoli accorgimenti. C’è però un ostacolo (etico?) che si chiama Rhett: è il figlio adolescente di Pearl, che sta passando un periodo complesso e sembra quasi provare piacere nell’essere infelice: sottoporlo o meno al test di Apricity?
La macchina della felicità è un romanzo che parla di esistenze online, offline, e dei rischi connessi al rapido progresso tecnologico, ma soprattutto che parla di uomini e sentimenti, con ironia e riflessioni su cosa significhi realmente la felicità, e su quanto questa possa essere diversa, nel suo sistema di valori, per ogni persona. A partire da questi spunti è inevitabile porsi domande sul futuro: le persone avranno davvero bisogno delle macchine per trovare quella che di fatto è una promessa di felicità? Ne avranno bisogno anche a costo di privarsi di una fetta di umanità e vivere una sorta di dipendenza dai dispositivi? È stata la stessa Katie Williams, insegnante di scrittura all’Academy of Art University di San Francisco, a rispondere.
Come è nato questo libro?
Comincio ogni nuovo progetto di scrittura con delle immagini, poi provo a creare connessioni tra loro. La macchina della felicità è iniziata con tre cose: l’immagine di un dito mozzato, un modello biologico di un animale estinto e una macchina della felicità. Ora che ci penso, questo metodo di scrittura è, a sua volta, quasi un modello Apricity.
Il suo libro è più sulla felicità o l’infelicità?
Tutti e due. Sentire l’infelicità, forse anche nominarla, ammette che la felicità può esistere e implica una lotta verso di essa. Sono contro l’idea chela felicità sia noiosa o semplice. Penso che questa sia un’idea potenzialmente dannosa; è come dire che chi è gentile non è intelligente. Credo chela felicità possa essere complessa, impegnata e in continua evoluzione, ed è lì che ho guardato per i miei personaggi e la mia storia.
Pensa che la nostra dipendenza dalla tecnologia sia al limite? O può ancora cambiare?
Temo ci sia ancora abbastanza spazio per noi per diventare ancora più dipendenti dalla nostra tecnologia; tuttavia, spero che diventeremo più saggi riguardo ai modi in cui usiamo la tecnologia e ai reali effetti che questa può avere su come vediamo il mondoe noi stessi. La tecnologia è uno strumento, e come ogni strumento può essere usato in modo distruttivo; può essere usato senza pensieri (nel qual caso diventiamo il suo strumento); o può essere usato per costruire e connettersi. Credo che il trucco sia prendere decisioni consapevoli su quando e co me verrà usato lo strumento.
Nel suo libro tutti i personaggi cambiano, ma non è la tecnologia a innescare il cambiamento. È il fattore umano, sono le emozioni, a farlo. Il suo si potrebbe definire come un libro sul cambiamento?
Penso che la tecnologia siamo noi. Inventiamo e progettiamo queste tecnologie e sono, quindi, una manifestazione della nostra volontà nel mondo. Tendiamo a trattare la tecnologia come un genio che sta per esaudire i nostri desideri o come un servitore che farà la nostra offerta, ma alla fine della giornata, siamo soli in una stanza con una macchina. Qualunque sia la soluzione o il desiderio che stiamo cercando, alla fine verrà a noi.
Esiste davvero una app come Apricity?
Ci sono app sulla felicità che tracciano i comportamenti o suggeriscono attività volte a sollevare lo stato d’animo. Ad esempio, c’è un’app chiamata RunPee che ti dice i migliori punti di un film per correre al bagno, in modo da non perdere una sequenza d’azione o una parte importante della trama. La adoro, perché dimostra quanto queste cose possano essere sciocche, pratiche e meravigliose tutte allo stesso tempo.
Altro tema importante del suo libro sono le relazioni. Quelle umane sono migliori e più profonde rispetto aq uelle che si possono instaurare con la tecnologia?
Continuiamo a sviluppare la tecnologia per aiutarci a creare relazioni umane e connessioni. Ad esempio, due delle tecnologie più intessute nella vita quotidiana delle persone sono social media e app di appuntamenti. Quindi penso che spesso usiamo la tecnologia come via per le relazioni umane. Ed è interessante perché ci sono modi in cui la tecnologia amplifica la nostra distanza e le differenze l’una dall’altra. Pensi ai troll, e alle sezioni dei commenti sotto gli articoli. D’altra parte, ci sono anche modi in cui la tecnologia ci consente di connetterci con persone che si trovano a grande distanza dal tempo e dalla geografia. Mio marito può chiamare la sua nonna di Okinawa per pochi centesimi, usando il computer, e lei può vedere la sua faccia e dire: “Hai fatto crescere la barba!”. Quando mio marito era bambino, la tecnologia sarebbe stata una telefonata breve e costosa. Quando la nonna di mio marito era bambina, sarebbero state lettere.
Il suo libro è stato spesso accostato a un episodio della serie tv distopica Black Mirror. Si trova d’accordo con questo parallelismo? Ha avuto modo di vedere la serie?
Sono contenta del confronto, perché sono una grande fan di Charlie Brooker (produttore di Black Mirror, ndr). Ricordo che la prima volta che guardai l’episodio “Quindici milioni di celebrità” (secondo episodio della prima stagione, ndr), pensai: “Oh! Uno spettacolo su come la tecnologia illumina chi siamo”. È nel titolo, giusto? La tecnologia è uno specchio in una stanza buia. Stiamo costantemente fissando la superficie riflettente, e mancando del tutto il nostro stesso riflesso che ci sta fissando.