6 ottobre 2013, otto di sera. Il professor Carlo Maria Balestri, cinquantanove anni, stimato antropologo di fama internazionale, sta cenando a casa sua in compagnia di Luca, ventisette anni, suo figlio. Come capita tutte le volte che discutono per qualche motivo, il silenzio tra loro sta aspettando paziente che uno dei due ceda e rivolga la parola all’altro; di solito a cedere è il padre, con una frase banale e uno sguardo negli occhi “come un cane bastonato”. Suonano alla porta, i carabinieri scaraventano al muro Luca che è andato ad aprire e si sparpagliano in tutta la casa. Dopo aver aperto rivoltato e guardato ovunque, portano via il professore, “accusato di rapimento, tortura, omicidio e occultamento di cadavere”. Luca dapprima non capisce nulla; poi prova a ripensare al loro passato, a cercare tracce nella loro vita tranquilla, quasi monotona, soprattutto dopo che – troppo presto – sua madre è morta e loro due sono rimasti soli. “Teneva le ragazzine in un container”. Per una pura casualità, è stata ritrovata una ragazza di ventidue anni, Laura, scomparsa il 12 agosto 1999 quando di anni ne aveva soltanto otto ed era uscita per incontrare la sua amica Martina. Per quattordici anni lo stimato professor Balestri, quando non era nelle università di tutto il mondo ad incantare con le sue lezioni o a casa con la sua famiglia, ha rifornito di cibo e libri una ragazzina che, in catene, teneva chiusa in una scatola di metallo in un terreno di sua proprietà di cui nessuno sapeva nulla. Non l’ha mai toccata, nessuna violenza fisica o sessuale. Ma le ha dato libri, tanti libri, per premio quando faceva bene i compiti, e poi un computer; quando Laura viene liberata parla quattro lingue e sa programmare in DOS. Tranne per quelle volte in cui si rinchiude per ore nei bagni dei bar che incontra durante le sue lunghe passeggiate, Laura va da una psicologa ma non sembra avere grossi traumi e ha persino aperto un profilo Facebook, come una qualunque ragazza della sua età. Queste cose Luca le sa perché l’ha seguita, l’ha avvicinata sul social, va persino dalla sua psicanalista. Perché? “Continui a sentirti responsabile”, gli dice la sua psicologa, quella vera, da cui lo ha indirizzato il loro avvocato di famiglia dopo l’arresto del padre. “Laura è un mio investimento: deve salvarsi. Non può perdere tempo”, dice Luca, e poi ancora, “A forza di cercare Laura l’ho trovata: sono diventato lei”; intanto pensa, Luca, e cerca di ritrovare “il mostro del golfo” – così chiamano ormai suo padre – tra i suoi ricordi ma non lo trova e non sa più chi è lui stesso; e poi ha così paura che col suo sangue abbia ereditato anche il germe del male. Non ha pace neanche la madre di Laura, “Dovrei essere luce, boati di felicità. Uno strillo di sole a tuttotondo. Invece vivo in casa come se d’un tratto in fondo al corridoio fosse comparso un buco neo che risucchia tutto e ferma il tempo”. È stato così difficile per lei rimettere insieme i pezzi in cui la sua vita si era frantumata e ha perso molto. Adesso le sembra di dover ricominciare tutto, “La sua ricomparsa è uno schiaffo al lavoro fatto per salvarmi”. Poi c’è Martina, che dal giorno in cui la sua amica del cuore è scomparsa è tormentata dai sensi di colpa, peggiorati da quando Laura è stata liberata (e non l’ha mai cercata) e i giornali hanno scritto della bambola, che la ragazzina aveva chiamato Martina, come la sua amichetta, con la quale ha parlato per quattordici anni. Un giorno Luca si ricorda della volta in cui ha preso la patente. La mamma era già morta e lui e suo padre erano usciti. Si erano fermati ad un bar e un insetto stecco si era posato sul tavolino nel chiosco. Suo padre lo aveva imprigionato capovolgendogli su un posacenere trasparente e gli aveva detto: “Potremmo tenerlo”. Luca aveva chiesto perché, senza capire. Lui aveva detto: “Per averlo. Vediamo cosa fa”. “Il gesto di mio padre sembrava interrompere qualcosa […], di solito osservava restandosene in disparte”…
“Vediamo cosa fa”. Su queste parole si articola l’intero racconto di Ossigeno, il nuovo romanzo di Sacha Raspini, editor, art director presso diversi editori, autore di racconti, romanzi e per il cinema. Dopo le dinamiche collettive protagoniste del suo ultimo successo Le Case del malcontento, Naspini volge lo sguardo alle reazioni del singolo messo spalle al muro dalle implicazioni del male dalle quali viene investito. Il punto di partenza è un evento terribile, il rapimento di una bambina e la sua liberazione dopo quattordici anni. Ma all’autore non interessa il crimine in sé, e infatti ha detto che il romanzo “comincia quando finisce un thriller”. E ancora, “Non mi interessava raccontare la dinamica della cattura dell’uomo e neppure le motivazioni che lo hanno spinto a fare quel gesto, mi interessava raccontare cosa accade ‘dopo’ a coloro che in modo diverso vengono travolti dalla vicenda”. Il professor Balestri scompare subito nelle prime pagine quando la storia comincia. È come se Naspini dicesse – anche lui – al lettore “Vediamo cosa fanno” i personaggi chiusi nella gabbia in cui si ritrovano all’improvviso, per scelta o necessità. Luca, prigioniero della colpa di suo padre, dei suoi sensi di colpa, dell’opinione pubblica e soprattutto della paura di avere qualcosa in comune con quell’uomo che non riconosce più, una sorta di “DNA psichico” come lo hanno definito nel suo entourage editoriale. Martina, intrappolata dai ricordi, da altri sensi di colpa, dalla domanda “e se…”. La madre di Laura, ostaggio di se stessa, delle sue fragilità, dei suoi limiti umanissimi, che pensa quasi suo malgrado “Laura è stata salvata da una gabbia e ha rinchiuso noi. Sono sbarre ferme, controllate da secondini”. Laura stessa, che è stata liberata dalla prigione in cui l’ha tenuta il suo carceriere ma dice “Ti convinci che se qualcosa è andato storto è stata la fiamma ossidrica con cui un giorno i carabinieri hanno spalancato il container”. E il lettore si ritrova davvero a vedere cosa fanno tutti, a spiare le loro reazioni dentro e fuori le loro gabbie. Questa forma di voyeurismo, unita al bisogno di controllo e di possesso, sono il cuore di un romanzo atipico, claustrofobico e intenso, nero ma di una oscurità tutta psicologica nella quale un groviglio di sentimenti si intreccia alle ombre, attraverso i lati oscuri di ciascuno. Eppure mai Naspini indulge al morboso, non gli interessa, non gli serve. Gli basta la sua voce innovativa, il ritmo teso, la scrittura affilata e tagliente che trascina il lettore ad un finale impossibile da svelare, perturbante nonostante sembri sfumare nell’onirico - o sarebbe meglio dire nell’incubo. Sulla chiusa assolutamente circolare della storia, al lettore restano tante domande, tutte inquietanti. È più libero chi sembra rinchiudere o chi viene rinchiuso? Chi è nella gabbia, chi è dentro o invece chi resta chiuso fuori? Chi ha rinchiuso chi in questa storia? Quali sono le gabbie più rigide? Vittime e carnefici si confondono, tutti in debito di “ossigeno”, i confini si fanno labili, vite interrotte sono costrette a deviazioni, interi mondo si sgretolano, certi altri sembrano nascere dalle macerie. Forse. C’è anche tanto silenzio in questo romanzo, certamente voluto per lasciare spazio in qualche modo al lettore. Fatevi allora trascinare da questo silenzio e dalle emozioni che contiene, non perdetevi questa lettura. A patto che siate disposti ad ammettere che probabilmente in una gabbia siamo rinchiusi anche noi, ognuno nella sua. Da solo.