La vita bugiarda degli adulti è un romanzo intenso nuovo amaro. Il racconto non è una continuazione della quadrilogia ma un’altra prospettiva all’interno dello stesso spazio: la città di Napoli. Entra ora in scena, infatti, un diverso tipo di identità: non più ibrida tra due mondi, popolare e borghese, come era nel caso di Elena ne L’amica geniale, e di Delia, Olga e Leda, ne L’amore molesto, ne I giorni dell’abbandono e ne La figlia oscura. Queste donne abitavano una sorta di terzo spazio, intermedio tra il mondo “plebeo” napoletano e quello borghese nazionale con smarginature continue, prima di tutto linguistiche, tra l’uno e l’altro.
Al contrario, Giovanna Trada — questo è il nome del personaggio femminile e voce narrante al centro de La vita bugiarda degli adulti — non si traveste da borghese ma è una piccolo borghese, che racconta a vicenda conclusa la sua formazione di adolescente (la storia comincia quando lei ha 12 anni). All’inizio del racconto, Giovanna sta tutta nella superficie di convenzioni rese verosimili dall’unico spazio della città che lei abita con sicurezza: il Vomero, un quartiere alto (in senso geografico e simbolico) di Napoli, che per gli abitanti del centro e delle periferie popolari è una figura della normalizzazione e dell’appiattimento.
Il suo italiano insopportabilmente decoroso è il frutto della prima bugia da cui Giovanna è stata generata: quella di un padre che viene — lui sì — dalla zona popolare del Pascone, un padre che riesce a diventare un professore di liceo e un intellettuale di un qualche prestigio in città solo a patto di rinnegare i propri parenti più stretti e la vergogna della propria origine sociale. Nella cornice di un’educazione liberale e permissiva, questo padre ostentatamente progressista pone quindi come unico divieto alla figlia quello di parlare in napoletano.
Nell’esistenza per bene di Giovanna, l’involucro della “vita bugiarda” si rompe solo quando intercetta casualmente una frase del padre: «Giovanna sta facendo la faccia di Vittoria». La sorella del padre, zia Vittoria, è un personaggio archetipico di strega, un «essere mostruoso che macchia e infetta chiunque sfiori», incarnazione di una vitalità popolare al tempo stesso liberatoria e retriva. In questo caso, la capacità della zia di erompere dalla faccia della nipote, di smarginarne i lineamenti borghesi è una chiave magica che tiene insieme l’espropriazione del sé adolescenziale femminile — sovraccarico di mestruazioni, seni sporgenti e odori impropri — con il tema, caro a Ferrante, di un limite delle identità, gravate da una eredità familiare percepita come tara e marchio indelebile.
Il romanzo di formazione di Giovanna prende avvio da questo trauma e dalla necessità di conoscere la zia, e con lei tutto il mondo popolare negato finora dal padre. Ma non c’è ritorno alle origini né tanto meno romantico esotismo di un’autenticità del primitivo marginale. Al centro di un complesso sistema di svelamenti della bugia si trova invece un braccialetto, donato da Vittoria a Giovanna per il suo battesimo e a lei mai arrivato. Come già in un grande archetipo della scrittura di Ferrante — Menzogna e sortilegio di Elsa Morante, cui il titolo di questo nuovo romanzo si richiama esplicitamente — il gioiello (in quel caso un anello con un rubino e un diamante) è l’espediente che permette di raccontare come le identità si costituiscano perennemente attraverso il furto e l’esproprio dell’altro/a e attraverso il continuo e reciproco rovesciamento di menzogna e verità.
E non sarà un caso sei colpi di scena del plot porteranno il braccialetto a intrecciarsi con la vicenda di Roberto, il giovane e ambizioso ricercatore universitario, figlio promettente — come già il padre di Giovanna — del Pascone. Amato e conteso da tutte, Roberto si svelerà come maschera di mite e compunta bontà, come il personaggio autenticamente falso per eccellenza.
Il rito iniziatico con cui Giovanna si avvia, alla fine della vicenda, verso la vita adulta le permetterà di liberarsi dell’ipocrisia piccolo borghese e delle sue narrazioni a doppio fondo, dei suoi espropri, ma solo per abitarne più consapevolmente il vuoto. La parabola della storia — ambientata ai primi anni Novanta del secolo scorso — chiama in causa indirettamente una grande emergenza della nostra contemporaneità: l’estraneità degli adolescenti ai progetti educativi tradizionali. La “vita bugiarda” declina questo fallimento nei sodalizi intellettuali del padre, nella scialba esperienza scolastica di Giovanna, nel furbo adattamento di Roberto alla carriera universitaria.
Mentre L’amica geniale ci raccontava luci e ombre di un’avventura femminile nel mondo nata dalla lettura di un libro (Piccole donne), qui viene messo in scena un sistema di menzogne che inibisce quella stessa esplorazione. Per questo La vita bugiarda degli adulti è il romanzo (o forse il primo volume di un altro ciclo narrativo?) più amaro che abbia scritto finora Ferrante.
— Tiziana de Rogatis, docente di Letterature comparate e Letteratura italiana contemporanea all’Università per stranieri di Siena, è autrice di “Elena Ferrante. Parole chiave” (e/o)