Gli addii mi rendono codardo. Sono arrivato alla fine di Storia di chi fugge e di chi resta – il quarto romanzo della tetralogia già in attesa sul mio comodino da un po’ – e ho preferito fare dietrofront all’ultimo. Non sono bravo con i congedi: soprattutto se, come in questo caso, si tratta di un a mai più rivederci. Allora prendo tempo. A novembre, così, ho rimandato a data da destinarsi la lettura del capitolo conclusivo – spero comunque di riuscire entro l’anno –, barattando il vecchio con il nuovo, una fine con un inizio. Una Ferrante con un’altra. Ancora una volta circondata da un’aura di mistero, la “scrittrice geniale” mi ha dato la scusa per procrastinare il giorno del commiato con un romanzo da scoprire prima che il passaparola togliesse il piacere della sorpresa.
La vita bugiarda degli adulti è una storia tutta nuova, ma restano le costanti fondamentali: una scrittura straordinariamente densa, gli alti e bassi di una narratrice adolescente talora difficile da perdonare, le contraddizioni di una città percorsa questa volta al contrario. Dal basso verso l’alto, dal Vomero al Pascone. I nostalgici del rione si sentiranno subito a casa, in un racconto di maturazione debitore della crescita di Lila e Lenù: prima bambine, poi donne, in un quartiere lontano dal baluginare del mare. Ricordate la galleria che a un certo punto le due percorrono mano nella mano, pur di affrancarsi dal giogo delle famiglie?
L’amore è opaco come i vetri delle finestre dei cessi.
Somiglia a un tunnel anche la libertà secondo Giovanna, tredicenne che compie invece il viaggio opposto: figlia della Napoli bene, si cala lungo una discesa tanto fisica quanto metaforica. A muovere la scarpinata è una cattiva parola pronunciata dal padre, professore ateo e alto-borghese, che d’un tratto reputa insopportabile i comportamenti della sua unica figlia. La bambina d’oro, all’improvviso, ha rinunciato a una camera rosa confetto per un vestiario succinto e tinto di nero. Ossessionata dal proprio riflesso allo specchio, non si sente all’altezza di quei genitori belli, colti e innamorati. Colleziona brutti voti, assesta rispostacce, s’incattivisce. Cose che succedono nell’età in cui il corpo si arrotonda nei punti giusti e l’animo, al contrario, si fa spigoloso. Ma Giovanna, a torto, si crede sola e incompresa. E frugando negli album di famiglia finisce per identificarsi con zia Vittoria, cancellata nelle fotografie a colpi di pennarello indelebile. Che lo scuorno della parente, rinnegata perché innamorata di un uomo già sposato, si sia abbattuto anche sulla nipote? Quante frequentazioni del ramo paterno sono state negate alla protagonista, scesa ora dalla proverbiale torre d’avorio?
Poi sussurrò in dialetto: scusa, non ce l’ho con te, ma con tuo padre; quindi mi infilò una mano sotto la gonna colpendomi lievemente, più volte, col palmo della mano, tra la coscia e la natica. Mi disse all’orecchio, ancora una volta: guardali bene, i tuoi genitori, se no non ti salvi.
Giovanna si sente a casa soltanto al terzo piano di un condominio imbrattato dalle scritte oscene, a tu per tu con la vergogna dei Trada. Vestita d’azzurro, magrissima e dal petto prosperoso, Vittoria ha le sopracciglia torve ma nasconde un animo romantico: si emoziona ancora parlando di Enzo, l’amante morto diciassette anni prima; balla nel salotto e invita Giovanna a seguirne i passi; racconta i dettagli più scabrosi del sesso e della vendetta, a zonzo su una Cinquecento verde che conduce la protagonista in un lungo tour del parentado, della fede e del dialetto. A ben vedere, chi è la persona davvero realizzata della famiglia? Bisogna biasimare la sguaiataggine della zia, o forse il perbenismo di un castello alto-borghese costruito su una polveriera pericolosissima? Inquadrata tra i tredici e i sedici anni, dalle scuole medie al ginnasio, la narratrice imparerà nell’arco del saliscendi un lessico sboccato e qualche rara preghiera. Asseconderà domande scomode, sensi di colpa, prurigini. Risponderà al nome di Giovanna in presenza delle amiche ricche, Ida e Angela, ma sarà semplicemente Giannina per i più ruspanti Giuliana, Corrado e Tonino. A piacimento, talpa e spola.
Leggere La vita bugiarda degli adulti è come accarezzare le ortiche. Immersa fino ai gomiti nella materia viscida e pungente della prima adolescenza, l’impavida Ferrante spia sotto le incerate dei tavoli e dai buchi delle serrature. Ama sporcarsi, con una scrittura paurosa e scintillante come il sangue vivo, ma protegge dagli schizzi del suo gran frugare il bracciale d’oro bianco ritratto sulla copertina: simbolo d'un passato furfante, falsato ad arte dal restauro dei ricordi, il gioiello passa da un polso all’altro e sembra portare disgrazie. Ma a lezione di stile e d’introspezione psicologica dall'autrice capiamo che la superstizione non esiste, idem il caso. I casi editoriali, quelli belli, per fortuna sì.
«Poi c’è la cosa che alla tua età è la più difficile: onorare il padre e la madre. Ma ci devi provare, Giannì, è importante». «Il padre e la madre non li capisco più». «Li capirai da grande». «Allora non diventerò grande».
Elena Ferrante ci ha abituati alle fragilità dei suoi personaggi, a finali bruschi, mai alla portata del suo talento. Si ripete. E mi ripeto anch’io. Impossibile non rimanere avvinti dal vigore della sua prosa; altrettanto non entrare nei suoi drammi, magari vestiti di tutto punto, fino a insudiciarsi di verità e altre sozzure. All’inizio divorato, poi centellinato per paura mi andasse di traverso, il nuovo romanzo ha la scrittura più preziosa dell’anno e la protagonista più antipatica. Guidato dalle secrezioni ghiandolari dei suoi personaggi, non dagli eventi, lo si ama e lo si odia insieme: compreso quell’epilogo della discordia, brusco come un colpo d’ascia, che in rete fa pensare a un’altra tappa della vita di Giovanna, all’arrivo di un altro testo complementare per dare un senso aggiunto a questa giovinezza: allo sbando, come d’altronde lo sono tutte indistintamente. Un fatto è certo.
Chiunque sia, dovunque viva, non importa quanti anni abbia, Elena Ferrante dev’essere rimasta un po’ bambina. I grandi mentono per istinto di sopravvivenza. Lei, invece, ha l’onestà infantile di chi li biasima, li guarda tutti dal basso verso l'alto, li apostrofa. Avrà alimentato sotto banco la sua curiosità infantile, le braci incandescenti dei suoi anni sfacciati. Nasconde a media e pararazzi, adesso, un prodigio: quello di non essere mai diventata adulta.