La vita bugiarda degli adulti è un romanzo di formazione, o Bildungsroman se preferite, nel senso più classico del termine, con due protagonisti assoluti: Giovanna e Napoli.
Giovanna Trada è la novità, Napoli rappresenta l’elemento di continuità nell’opera letteraria della Ferrante, la sua vera musa ispiratrice. Una città che viene proposta con descrizioni che svelano ogni volta una nuova forma urbana.
«Dio, sussurravo, Dio, lo so che è colpa mia, non avrei dovuto pretendere di incontrare Vittoria, non avrei dovuto andare contro la volontà dei miei genitori; ma ormai è accaduto, rimetti tutto in ordine, per favore. Speravo che Dio davvero lo facesse, perché se non l’avesse fatto, tutto sarebbe franato. San Giacomo dei Capri sarebbe ruzzolata sul Vomero e il Vomero sull’intera città e l’intera città sarebbe affogata in mare».
In questo caso ne percepiamo in modo evidente la sua orografia. È una città che s’inerpica, le cui parti si sovrappongono le une alle altre. Più spesso giustapposizioni avvenute in epoche diverse, la città ha compiuto trenta secoli di vita, e che rappresentano il motivo essenziale per il quale è stata dichiarata Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco nel 1995 con queste motivazioni: «Si tratta di una delle più antiche città d’Europa, il cui tessuto urbano contemporaneo conserva gli elementi della sua storia ricca di avvenimenti. I tracciati delle sue strade, la ricchezza dei suoi edifici storici caratterizzanti epoche diverse conferiscono al sito un valore universale senza uguali, che ha esercitato una profonda influenza su gran parte dell’Europa e al di là dei confini di questa».
Napoli, una città che contiene tante città e non solo in senso figurato. Tante città popolate da persone diverse tra loro e che insieme compongono un’unica e inimitabile realtà metropolitana.
«Va detto poi che i parenti di mia madre vivevano in uno spazio preciso con un nome suggestivo, il Museo, - erano i nonni del Museo -, lo spazio dentro cui risiedevano i parenti di mio padre era indefinito, senza nome. Avevo un’unica certezza: per andare da loro bisognava calare giù, più giù, sempre più giù, nel fondo del fondo di Napoli, e il viaggio era così lungo che mi pareva, in quelle circostanze, che noi e i parenti di mio padre abitassimo in due città diverse. Cosa che per lungo tempo mi è sembrata vera. Avevamo casa nella parte più alta di Napoli e per andare in qualsiasi luogo dovevamo di necessità scendere. Mio padre e mia madre scendevano malvolentieri solo fino al Vomero o, già con qualche noia, fino alla casa dei nonni al Museo […] Fuori dal Vomero, la città mi apparteneva poco o niente, anzi più ci si muoveva in pianura, più mi risultava sconosciuta. Era naturale dunque che le zone dove abitavano i parenti di mio padre avessero, ai miei occhi, i tratti dei mondi ancora selvaggi e inesplorati».
La città in cui per trovare le cose che ti servono devi scendere. Andare giù. E poi ancora più giù. Non solo dunque una descrizione minuziosa dei luoghi ma anche una sorta di manuale d’uso. Un legame indissolubile quello tra Napoli ed Elena Ferrante che rende inimmaginabili le storie della scrittrice contemporanea italiana più famosa al mondo senza Napoli come inimmaginabile sarebbe Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa senza la Sicilia.
Il descrivere Napoli e il suo popolo è tutt’uno con la storia narrata, sei giunto solo a pagina sedici e hai già familiarizzato con Giovanna, Giannì. Sai tutto della sua famiglia, dove abitano i suoi compagni di scuola, dove lavora sua madre. Sembra di rileggere Italo Calvino de Le città invisibili quando scrive, «Le città sono un insieme di tante cose: di memoria, di desideri, di segni d’un linguaggio, le città sono luoghi di scambio, come spiegano tutti i libri di storia dell’economia, ma questi scambi non sono soltanto scambi di merci, sono scambi di parole, di desideri, di ricordi».
Napoli, la città in cui cresce la dodicenne Giovanna che alla fine del romanzo è una ragazza di sedici anni. Quattro anni in cui accadono tante cose: anni di scoperta e conoscenza del mondo. Anni di tribolazioni, un grado zero dello sguardo che racconta in prima persona ciò che accade. E ciò che accade avviene rompendo un tabù, incarnato in zia Vittoria la sorella del papà di Giovanna. Il ri-trovare zia Vittoria innesca tutti gli accadimenti che leggeremo. Un incontro che avviene all’inizio della narrazione, a pagina quarantatré.
«Uscii dall’auto, entrai nel portone. C’era un odore forte di spazzatura misto al profumo di sughi domenicali. Non vidi ascensore. Salii per scale dai gradini sconnessi, le pareti mostravano ampie ferite bianche, una era così profonda che sembrava un buco scavato per nasconderci qualcosa. Evitai di decifrare scritte e disegni osceni, avevo altre urgenze. Mio padre era stato bambino e ragazzo in questo edificio? Contai i piani, al terzo mi fermai, c’erano tre porte. Quella sulla mia destra era l’unica che esponeva un cognome, sul legno c’era incollata una striscetta di carta dov’era scritto a penna: Trada. Suonai il campanello, trattenni il respiro […] La porta si aprì, comparve una donna tutta vestita di celeste, alta, una gran massa di capelli nerissimi fissati sulla nuca, sottile come un’alice salata e tuttavia con spalle larghe e un gran petto…».
La nipote ha ritrovato sua zia e non sa, non ancora almeno, che attraversando la soglia di quella porta entrerà nel mondo degli adulti. Da questo momento in poi accade tutto e la vita di Giovanna cambia radicalmente così come cambierà la vita dei suoi genitori e di tutte le persone che le sono accanto.
In La vita bugiarda degli adulti c’è l’amore. Sia quello che «move il sole e l’altre stelle» sia quello fisico, carnale. Quello che se non lo fai almeno una volta nella vita «è inutile che campi», le sagge parole che Vittoria dirà a Giovanna in uno dei loro primi incontri.
C’è il mistero legato a un bracciale, ricordo di famiglia, che ha un ruolo centrale della storia narrata.
C’è la curiosità intellettuale che funge da calamita e che spinge Giovanna verso Roberto.
«Tutti mangiarono, risero, discussero, si dettero sulla voce. Avevano a cuore grandi temi, ci capii poco. Oggi posso dire solo che parlarono per tutta la sera di ingiustizia, fame, miseria, cosa si fa di fronte alla ferocia della persona ingiusta che prende per sé togliendo a tutti gli altri, qual è il comportamento da tenere. A occhio e croce potrei riassumere così la discussione che rimbalzò in modo allegramente serio da un capo all’altro della tavolata. Si ricorre alla legge? E se la legge favorisce l’ingiustizia? E se la legge stessa è l’ingiustizia, se la violenza dello stato la tutela?».
C’è la vita di un’adolescente in cui tanti si possono riconoscere e c’è la vita degli adulti in cui altrettanti si possono riconoscere.
E poi ci sono le «gentilezze mute».