Il timore di non ritrovare la forza identificativa, la consistenza delle parole, trascinandosi dietro inevitabilmente confronto con l’eredità letteraria è sempre dietro l’angolo quando un autore e autrice ritornano sugli scaffali. Temevo ciò ma il pensiero non avrebbe dovuto nemmeno sfiorarmi. Il piglio analitico, i tuoi sentieri più battuti, cara Elena Ferrante, in queste pagine della Vita bugiarda degli adulti (Edizioni E/O) finalmente li ho ritrovati.
Tutto ha inizio da un’osservazione apparentemente innocua ma che scava un solco, proietta a cambiamenti nella figura di una giovane donna che sta per misurarsi con le illusioni, lo sconforto dell’adolescenza.
Giovanna, la protagonista che all’inizio ha 12 anni e alla fine 16, ad un certo punto dice: «Il padre e la madre non li capisco più». […] Mi sento brutta, di cattivo carattere, e tuttavia vorrei essere amata». Il senso di questo disorientamento è raccontato come una sorta di educazione sentimentale, che trova qualche innesto in Flaubert e in tanti riferimenti letterari che tessono la formazione culturale dell’autrice.
«L’adolescenza non c’entra: sta facendo la faccia di Vittoria», dice il padre alla madre. Si scopre con queste sembianze, fatta di bruttezza e malvagità, repulsione e sgomento.
Ad un certo punto Giovanna vuole confrontarsi con questa ombra, che nella sua memoria è secca e spiritata: «Mi disperai tutta la notte. Al mattino mi convinsi che, se volevo salvarmi, dovevo andare a vedere com’era realmente la faccia di mia zia Vittoria». Specchiarsi in un’ossessione porta poi all’invitabile incontro. E così va a bussare alla porta della sorella del padre, dal Rione Alto in cima a San Giacomo dei Capri, con tutti gli agi, si scende a rotta di collo verso il fondo della città come una novella Ortese.
C’è una mappatura di Napoli, una geografia di sentimenti che, da via Suarez a via Cimarosa, rincorre compagni, familiari, giardini, sprazzi di mare e buone maniere; di dovere che include le incombenze quotidiane dal lavoro alle necessità per spinge fino alla Biblioteca Nazionale, a Toledo, piazza Carlo III, capolinea dell’erranza. Giù di lì si apre un mondo ignoto, poco accomodante che raggiunge via Miraglia, del Pascone, toni grigi e terra bruciata. La Zona industriale. A rimarcare il confine la lingua: italiano degli intellettuali e del benessere, il dialetto che involgarisce i pensieri e gli individui, mai concesso dai genitori che hanno tentato di ripulirsi, soprattutto il padre.
Nella città bassa appaiono un corollario di voci apparentemente sbiadite ma in grado di dare forma a Giovanna, legami di sangue che per anni ha ignorato. Vittoria oscilla tra la rabbia acuta e la tenerezza inaspettata, si racconta verità tutte sue, diventa un’urgenza per lei in un rapporto sempre sproporzionato per azioni e aspettative.
Da qui parte l’indagine della ragazza, che le consentirà di risalire fino al Rione Alto, entrare nella sua casa, mettere in discussione il carisma dei genitori e scoperchiare i maschi, anche quelli più nobili, dai ritratti rozzi.
Si affollano pensieri opachi, si scombina l’ordinario, si sgretola le certezze, l’ipocrisia e l’ambiguità di una famiglia borghese si piega sulle ombre. Sono due i sensi che guidano la narrazione: la vista, inteso come osservazione attenta dei misfatti; l’udito che si dipana oltre la città e include lo strombazzare delle intenzioni. «Guardali, i tuoi genitori, guardali bene, non farti imbrogliare», le instilla Vittoria.
Qui l’imbroglio ha un’altra forma, è quasi un esempio da seguire: sentirsi invischiata come gli adulti, ordire piani, trasformare la menzogna in realtà. La bugia, il tradimento, la colpa, la sofferenza decretano la perdita dell’innocenza per entrare a tutti gli affetti nella vita bugiarda degli adulti, per scoprirsi scomposta e libera.