Due anni prima di andarsene di casa mio padre disse a mia madre che ero molto brutta. La frase fu pronunciata sottovoce, nell'appartamento che, appena sposati, i miei genitori avevano acquistato al Rione Alto, in cima a San Giacomo dei Capri. Tutto - gli spazi di Napoli, la luce blu di un febbraio gelido, quelle parole - è rimasto fermo. Io invece sono scivolata via e continuo a scivolare via anche adesso, dentro queste righe che vogliono darmi una storia mentre in effetti non sono niente, niente di mio, niente che sia davvero cominciato o sia davvero arrivato a compimento: solo un garbuglio che nessuno, nemmeno chi in questo momento sta scrivendo, sa se contiene il filo giusto di un racconto o è soltanto un dolore arruffato, senza redenzione. (p. 9)
C'è proprio tutta Elena Ferrante in questo inizio folgorante: un trauma, un enorme e cogente svelamento che segna una linea di demarcazione netta e irreparabile; Napoli, con i suoi quartieri cristallizzati in qualcosa che non passa; l'iconicità di una scena che non è destinata all'oblio, ma che resta - indelebile - nel cuore più ancora che nella mente; un io narrante che si confessa scrittore e scrivente, in cerca di fare chiarezza e "sciogliere il groviglio". Eppure, se qualcosa sembra richiamare le atmosfere dell'Amica geniale, va detto che La vita bugiarda degli adulti è molto altro.
Andiamo per gradi. La protagonista, Giovanna, è la classica adolescente che cerca di compiacere i genitori, almeno finché non sente il discorso del padre, che trova in lei una somiglianza sempre più spiccata con zia Vittoria, la sorella con cui lui ha rotto i rapporti anni prima.
Il vero motivo per cui il padre ha tagliato i ponti con tutta la sua famiglia, poi, è stato sepolto e spiegato a Giovanna solo in frasi smozzicate e tra tante reticenze. Probabilmente la cosa non sarebbe neanche stata indagata, se la ragazza non avesse origliato quella conversazione: invece, all'improvviso, il suo mondo prima in equilibrio perfetto si è sbilanciato, portando la ragazzina ad allontanarsi dal genitore da lei più amato. E l'immagine sbiadita di zia Vittoria si è affacciata alla mente, fino a diventare un'ossessione: da lì, il desiderio di conoscere la donna, di guardare quel tanto fantomatico modello di bruttezza e di malvagità.
Incontrare Vittoria significa entrare in contatto con la sua ruvidezza, con le confidenze irruente e le successive ritrosie, con le maledizioni contro il padre e la madre di Giovanna, nonché con l'immediatezza del suo lessico napoletano, così poco sorvegliato, al contrario di quanto Giovanna sente pronunciare dai genitori, entrambi professori. Vittoria è senza veli, nel bene e nel male, e porta con sé l'amore per Enzo, che ancora brucia in lei, e che intrappola il suo presente in un continuo rievocare dettagli e quindi covare rabbia per la sua solitudine coatta. Attorno alla donna, c'è tutto il suo quartiere, così lontano geograficamente e architettonicamente da quello di Giovanna da sembrare un altro mondo. E lì si muovono persone che vivono diversamente, senza le difese e gli schermi della cultura, ma con la spontaneità di abbracci sinceri: non ci vuole molto perché la ragazzina conosca gli altri parenti e venga accolta persino dalla famiglia di Enzo (la vedova e Vittoria hanno un singolare rapporto d'amicizia, entrambe unite dall'amore per il defunto).
Ecco allora che la loro conoscenza - e in particolare la frequentazione di Tonino, Corrado e Giuliana, figli di Enzo di pochi anni più grandi di lei - fa sì che Giovanna arrivi a mettere in dubbio tutto: se i suoi genitori hanno minato la sua identità, ora i nuovi amici e parenti la portano ad aprire gli occhi sull'età adulta. E sulla quantità di bugie che si devono dire per quieto vivere o semplicemente per sopravviversi, in un continuo andirivieni di menzogne e sensi di colpa. I genitori non sono perfetti, tutt'altro, hanno anche loro segreti che si annidano dietro ad amicizie di comodo, gesti formali, discussioni apparentemente superficiali. E questa è una scoperta che porta con sé spaesamento e atti autodistruttivi, spesso trattenuti appena prima di diventare irrimediabili: Giovanna, che vuole essere amata nonostante la propria presunta bruttezza, prova a migliorare il suo aspetto, ma soprattutto vuole che altri la desiderino, nonostante tutto. Anche se questo vuol dire portarla a rinunciare a quanto ha di più personale - come la sua dignità -: più volte, come già nell'Amica geniale, non viene visto che come uno strumento di potere per misurare sé stessa e gli altri, per provare ad avanzare socialmente o semplicemente come sfogo di una disperazione, tra disgusto e al tempo stesso attrazione. Tra Edipo, strappi violenti della propria libido e sue negazioni altrettanto crudeli, Giovanna cerca sé stessa e si incapriccia di un ragazzo che non potrà mai avere, mentre si lascia corteggiare da chi la desidera ma solo per il suo corpo procace, non per chi è davvero.
E, come accade anche negli altri romanzi di Elena Ferrante, la protagonista è tanto tratteggiata, le sue frequentazioni tanto vivide, i suoi dolori tanto rilevati da farci desiderare un finale di pieno riscatto, o semplicemente un po' di pace per quest'anima che sentiamo amica, vicina, parente, sorella. Un grande romanzo, densissimo e complesso, da leggere centellinando ogni pagina perché c'è una profondità che dà vertigini e che poi ci restituisce, arricchiti, al nostro presente.