“I miei vicini non temono niente. Non hanno preoccupazioni, non si innamorano, non si mangiano le unghie, non credono al caso, non fanno promesse né rumore, non hanno l’assistenza sanitaria, non piangono, non cercano le chiavi né gli occhiali né il telecomando né i figli né la felicità. Non leggono, non pagano tasse, non fanno diete, non hanno preferenze, non cambiano idea, non si rifanno il letto, non fumano, non stilano liste, non contano fino a dieci prima di parlare, non si fanno sostituire. Non sono leccaculo né ambiziosi, rancorosi, carini, meschini, generosi, gelosi, trascurati, puliti, sublimi, divertenti, drogati, spilorci, sorridenti, furbi, violenti, innamorati, brontoloni, ipocriti, dolci, duri, molli, cattivi, bugiardi, ladri, giocatori d’azzardo, coraggiosi, fannulloni, credenti, viziosi, ottimisti. I miei vicini sono morti. L’unica differenza che c’è fra loro è il legno della bara: quercia, pino o mogano.”
Il nome di Valérie Perrin non dirà molto ai più in Italia, ma Oltralpe è nota per essere stata per anni fotografa di scena per le più importanti produzioni cinematografiche, tra cui quelle del marito, il regista Claude Lelouch. Già vincitrice di numerosi premi, con questo romanzo del 2018 ha rappresentato un vero e proprio caso letterario. La protagonista, Violette Trenet Toussaint, sembra la zia della ragazzina Renée protagonista dell’Eleganza del riccio: un po’ naive, cela, dietro l’apparenza di una donna sola e insignificante di mezza età, una vita fatta di misteri e di storie che il lettore scopre, come l’abito rosso nascosto sotto il soprabito grigio, aprendo tante piccole scatole cinesi.
“Mi chiamo Violette Toussaint. Facevo la guardiana di passaggio a livello, ora faccio la guardiana di cimitero. Assaporo la vita, la bevo a piccoli sorsi, come un tè al gelsomino con un po’ di miele. E la sera, quando il cancello del cimitero è chiuso e la chiave appesa alla porta del bagno, sono in paradiso. Non il paradiso dei miei vicini, no. Il paradiso dei vivi: un sorso del porto annata 1983 che José-Luis Fernandez mi regala ogni primo settembre, un rimasuglio di vacanze in un bicchierino di cristallo, una specie di estate indiana che stappo verso le sette di sera sia che piova, nevichi o tiri vento. Due gocce di liquido color rubino, il sangue delle vigne di Porto. Chiudo gli occhi e lo gusto. Basta un sorso per allietarmi la serata. Due gocce, perché mi piace l’ubriachezza ma non l’alcol… “Sono stata molto infelice, addirittura annientata, inesistente, svuotata. Sono stata come i miei vicini, ma in peggio. Le mie funzioni vitali continuavano, ma senza me dentro, senza la mia anima, che, a quanto pare, a prescindere da che uno sia grasso o magro, alto o basso, giovane o vecchio, pesa ventuno grammi.”
Il racconto in prima persona inizia con una doppia presentazione: quella dei “vicini di casa”, i morti del cimitero di un paesino di campagna nella regione della Borgogna, Brancion-en-Chalon, con i viali ombreggiati da tigli centenari e le tombe con i fiori sempre freschi, e quella della protagonista, che in poche pagine racconta le sue origini, la vita di prima, l’infanzia senza genitori, il va e vieni presso le famiglie affidatarie, l’incontro con Philippe, il lavoro di casellante e l’inizio di quello da guardiana del cimitero. Le informazioni sembrano centellinate, portate al grado minimo della sofferenza che può generare un ricordo, tenuto quasi a una distanza emotiva di sicurezza.
Appena girata la pagina, il lettore trova una narrazione al presente, dove la scrittura si fa più distesa e lenta nel disegno del quotidiano vissuto da Violette: come usciti da una scatola di fotografie, aperta sul tavolo della cucina, ecco i ritratti dei suoi compagni di lavoro, i necrofori Nono, Gaston e Elvis, quelli dei dormienti del cimitero, con le loro storie e i loro volti muti e sbiaditi sulle lapidi, e quelli dei vivi, che tra quei viali cercano il conforto di una parola, di un ricordo. Infine, da ultimo, il ritratto di un marito donnaiolo e distratto, che scompare improvvisamente: la storia nuovamente riavvolge il filo del tempo, tornando al momento dell’incontro di Philippe con Violette, ragazza difficile, davanti al bancone di un bar.
Quasi come se fosse un sogno a occhi aperti in cui, con la protagonista, si è perso anche il lettore, qualcuno bussa alla porta, richiamando l’attenzione ancora sul presente: l’ospite inatteso è un commissario di polizia che viene da Marsiglia, una faccia stropicciata alla Gainsbourg e l’aria arruffata quanto basta per incontrare l’interesse di Violette. La madre del poliziotto, Irène Fayolle, è morta da poco e ha lasciato disposizione che le sue ceneri vengano poste sulla tomba di Gabriel Prudent, anziano signore benestante del paese, morto ormai da qualche anno e sepolto vicino alla consorte. Quale legame univa i due?
Intanto la vita continua e il racconto accompagna il lettore accanto a Violette, intenta nelle sue mansioni quotidiane, facendolo entrare nel suo mondo, dove esiste un guardaroba estivo e uno invernale: non sono legati alle stagioni ma all’abitudine di Violette di indossare la “sua” estate indiana sotto gli austeri abiti di custode di un cimitero dove i morti “parlano” attraverso gli epitaffi, dove la memoria si arricchisce di storie, di aneddoti di persone che poco a poco diventano familiari con un’intimità “domestica” e una diversa umanità.
L’ambientazione perde così la sua caratteristica lugubre, trasformandosi nel luogo di incontro di tante voci su più livelli temporali, con il contrappunto delle canzoni di Charles Trenet, Johnny Hallyday, Jacques Brel, Georges Brassens, Vincent Delerm e Jacques Prévert. Tra una vicenda e l’altra, si aggiungono tasselli al passato di Violette: i primi anni di convivenza, la nascita di una figlia, Léonine, il matrimonio, i tradimenti, la fine dell’amore, l’allontanamento da casa di Philippe, la sua scomparsa, la solitudine, la depressione, l’amicizia con Sasha, il precedente custode del cimitero, la lenta riconquista della serenità. Intanto si comincia a definire la storia della madre del commissario, costretto a fare i conti con la natura imprevedibile dell’amore: quello già vissuto, di sua madre, e quello, più difficile, ancora da vivere e tutto da costruire, con Violette…
Ma molti fili restano sospesi: bisognerà girare ancora parecchie pagine per scoprire qual è stato il destino di Léonine, la storia completa di Irène Fayolle (attraverso le pagine del suo diario), il dramma e la perfidia delle coincidenze dietro la scomparsa di Philippe. Come in un meccanismo perfettamente costruito, degno di un libro giallo, la Perrin tiene sulla corda il lettore, bilanciando in maniera efficace i toni del racconto, dosando con sapienza i tempi, gli andanti e i presto.
Arrivati alla fine della storia, si scopre che quello appena letto non è un libro sulla morte, ma un libro sull’amore e sulla vita che, nonostante sia una lunga perdita di ciò che si ama, continua, nonostante tutto, il suo corso. Perché, nel fondo delle cose, ciò che è davvero importante non si perde, ma resta dentro, come un po’ di eternità, come una lacrima sospesa, per un attimo, tra le ciglia. La vie devant soi.