«Questo poema è stato scritto per essere letto ad alta voce».
Ma oggi, nel 2019, chi scrive più poemi? Kate Tempest, ad esempio: poetessa, compositrice, scrittrice inglese classe 1985. E soprattutto spoken word perfomer, per dire in un altro modo la sua professione di aedo — e che qualcuno si spinge a definire rapper. Doverosa, dunque, la precisazione che segue il titolo del suo canto — no, non è propriamente un libro anche se stampato su carta —Brand New Ancients / Antichi Nuovi di Zecca, ora edito in Italia da E/O con la traduzione di Riccardo Duranti (il testo originale inglese è mantenuto a fronte).
«Nei tempi antichi i miti erano storie che usavamo per spiegare noi stessi. Ma come facciamo a spiegare come odiamo noi stessi, le cose in cui ci siamo trasformati, il modo in cui ci complichiamo troppo?», canta la poetessa. Non urla, non inveisce, non ammonisce — Omero certo non lo avrebbe mai fatto.
Pienamente greca — ma nuova di zecca —, Tempest racconta invece una storia, tragica quanto banale: Thomas e Clive, un bravo ragazzo e un bullo violento, si scontrano in un pub attratti da una donna, scontando le colpe dello stesso (a loro insaputa) padre alcolizzato e i dissesti di un'infanzia complicata.
«Siamo ancora mitici, siamo ancora eroici, siamo ancora divini», scrive l'autrice. Lo siamo da sempre, perché in ognuna delle nostre vite prima o poi esplode una Pandora nuova di zecca: ci muoviamo attraverso l'esistenza tra l'eroico e il patetico, per questo siamo così mostruosi.
Forse oggi siamo soltanto overcomplicated, come sostenne anche Carl Gustav Jung parlando di coloro che non riescono a sopportare la perdita del mito: tra i nevrotici dei nostri tempi ce ne sono molti che non lo sarebbero stati, che non sarebbero vissuti in discordia con sé stessi se fossero nati in epoche in cui l'uomo, grazie ai miti, dipendeva dal mondo ancestrale. Nessun appello al ritorno verso chissà quale passato bucolico, per carità: giusto una constatazione, quella di Tempest, di un presente in cui «non conosco come si chiamano i miei vicini di casa, però so come si chiamano i ricchi e i famosi. E come si chiamano le loro ex compagne e perfino i nuovi compagni delle loro ex».
Gli eroi ci sono sempre stati, i cattivi pure: forse oggi si è solo alzata la posta in gioco, ma non fa molta differenza. Tra cattiveria, passione, ambizione e crepacuore, siamo sempre gli stessi fin dall'inizio, continuiamo a provare ad andare avanti in tutta la nostra furia. «Le storie ci sono, basta ascoltarle» — le storie sono qui, le storie siamo noi.
Neppure gli dei ci hanno mai abbandonato: non importa se oggi sono nelle agenzie di scommesse o hanno bisogno di un aiutino chimico contro lo stress — non importa nemmeno se sono «nei cessi a scopare senza protezione». Gli dei sono come noi, furenti o sprecati, intenti a gettare pugni di terra sulle bare delle persone care, sentendosi in colpa e chiedendosi dove hanno sbagliato.
Apprezzo Kate Tempest da tempo, e sono ora tenuta qui ad ammettere due cose. E la prima volta che la «leggo»; confidavo dunque nel beneficio del silenzio e della solitudine concessi dalla lettura solitaria. Mi sbagliavo, poiché non è affatto necessario «sentire» la sua voce sbattere nelle tempie attraverso gli auricolari, trasmessa da qualche podcast, né «vedere» via YouTube le sue mani brandire il microfono per sentirsi sconquassati, quasi presi a schiaffi dal suo fervore dionisiaco — chi è alla ricerca di una dolce fanciulla di Lesbo, passi pure oltre.
La seconda, trattandosi di quel mito antico di cui anch'io mi occupo, leggendo Brand New Ancients ho dovuto riconoscere che, certe cose, Tempest sa dirle molto meglio di me. Forse anche lei non si deve essere curata troppo dei secolari dibattiti circa l'utilità del greco, il valore del classico, l'archetipo degli eroi — consessi che non fanno altro che ripetere l'autopsia sul cadavere del mito, facendolo a brandelli.
Siamo nevrotici, sì, lo siamo sempre stati a partire dagli eserciti schierati sulla piana di Troia. Di fatto — e in assenza di miracoli evolutivi degli stati d'animo—, siamo ancora antichi, perché in cinquemila anni di storia dentro non siamo cambiati. Ciò che è nuovo di zecca in questo poema è quindi la diagnosi secondo la quale «tutto ciò che ci serve è un posto cui appartenere; saper distinguere tra bene e male». E scoprire, incasinati e soli, da che parte stare.