Come il filo dorato con cui si riprende una tessitura dalla trama preziosa e già sperimentata, la linea d'ombra tra infanzia e adolescenza evocata in tante parti di L’amica geniale torna nell'ultimo romanzo di Elena Ferrante, La vita bugiarda degli adulti, da domani in libreria. Vi si racconta del guado da tutti attraversato, da moltissimi narrato ma che solo di rado raggiunge la potenza lancinante propria della scrittura di chi si firma Elena Ferrante. A balenare è soprattutto l’impercettibilità del passaggio, con la metamorfosi del corpo dove per le femmine s’insedia il sanguinamento mensile del mestruo, il gonfiore sgomentante dei seni, l’insorgere di nuovi odori. Ma la lacerazione più forte è il disvelamento dei genitori, scarnificati dalle sembianze eroiche dell’ingenua glorificazione infantile e scoperti disarmati portatori di identità fragili, impastate di debolezze umane, di pulsioni mediocri, di borghesissimi segreti e bugie.
Anche qui lo sguardo sul mondo è femminile; anche qui, ma più sottile, c’è la rivalità tra amiche per un uomo, Roberto, e l’orgoglio per le buone letture è sventolato come uno stendardo molto femminile, perché poi femminile è la voce narrante: è quella di Giovanna, tredicenne figlia di Andrea a Nella. «Mio padre leggeva moltissimo, mia madre pure e io amavo essere come loro», annota la ragazzina, chiudendo il cerchio apparentemente perfetto di una famiglia della buona borghesia riflessiva, con un appartamento luminoso in via San Giacomo dei Capri. Lui insegna storia e filosofia «nel liceo più prestigioso di Napoli», lei latino e greco a piazza Carlo III. Sono intellettuali progressisti, sono stati e forse ancora sono marxisti e ingaggiano animate discussioni con gli amici, tra cui spicca la coppia del professore universitario Mariano e della bella Costanza, genitori delle due migliori amiche di Giovanna. «Tutt'e tre… non eravamo state battezzate, tutt’e tre non conoscevamo preghiere, tutt'e tre eravamo state precocemente informate sul funzionamento del nostro organismo… tutt'e tre sapevamo che bisognava sentirsi orgogliose di essere femmine», racconta Giovanna. Suo padre si chiude nello studio dove, «se si dedicava a grandi pensieri irrobustiti da libri diligentemente annotati, era felicissimo». Sua madre corregge bozze di «romanzetti rosa», è appena uscita da una depressione, primo tarlo nascosto nel legno dell’impalcatura familiare. Ma a farla scricchiolare sarà una frase buttata lì dal padre, destinata a non essere udita da Giovanna però da lei dolorosamente carpita, che attribuisce alla figlia la bruttezza dell’anima nera di famiglia, sua sorella Vittoria.
Quella frase, sapientemente posta ad apertura della storia, lavora in Giovanna e risucchia il lettore nel romanzo come il ragno che cattura l’insetto. Come gli incipit di I giorni dell’abbandono e di L’amica geniale si entra nella ragnatela ferrantiana per non uscirne fino alla fine. Così, pur avendo ricevute le bozze del libro all'alba di ieri, nemmeno io ne sono uscita se non a libro chiuso. A far sentire chi legge in un contesto espressivo ben conosciuto, è l’andamento narrativo che mescola con maestria registri alti e bassi e soprattutto nelle pagine su sentimenti amorosi e pulsioni sessuali, non lesina, anzi intensifica innesti da feuilleton. E tra gli escamotage del racconto torna l’oggetto-marcatore della storia: in L’amica geniale, ma anche in La figlia oscura, era la bambola, qui è un braccialetto d’oro.
La zia vittoria, con cui Giovanna s’incaponisce a incontrarsi, sosterrà di averglielo donato alla nascita, i genitori negano e l’oggetto risulta sulle prime sparito, per poi riapparire, passare di mano in mano e, come un amuleto negativo che porta disgrazia, far affiorare ipocrisie e cattiverie. Ma sarà l’incontro con la zia Vittoria a produrre eventi, e incontri, destinati a rompere l’equilibrio infantile di Giovanna, proprio come il suo linguaggio scurrile, le frasi sboccate che, come in L’amica geniale, si trasmettono come un contagio a sua nipote, veicolano un dialetto osceno urlato con ferocia dalle classi sociali inferiori. Anche questo è parte del timbro di scrittura tipicamente ferrantiano, ed è destinato ad attrarre per la capacità di ricreare un ambito narrativo già noto. Così come il ritorno di caratterizzazioni di un femminile molto napoletano - «alice salata», «mazza di scopa» - e temperamentale, come nel caso di Vittoria, figura aspra dall'affettività enigmatica.
Quest’asprezza si trasmette a Giovanna nel suo momento più buio quando scopre l’inganno del padre nascosto alla madre per quindici anni: «Mi stava crescendo dentro, ormai, un violentissimo bisogno di degradazione… una smania di sentirmi eroicamente turpe». Così, le nuove frequentazioni di Giovanna, che dal Vomero «scende» al Pascone, «zona di cimiteri, di fiumane, di cani feroci» dove abita Margherita con i tre figli, portano a preliminari di sesso squallido ben diverso da quello asettico delle lezioncine impartite dai genitori. E anche qui l’attraversamento dei quartieri porterà a mescolanze di classi sociali, con un’esplosione di violenza sul viso di una ragazza e di una rissa tra uomini.
La «faticosa approssimazione al mondo adulto» di Giovanna fino ai 16 anni, è un rito di iniziazione che passa per un viaggio a Milano e una rinuncia, ma deve soggiacere alla pratica di liberarsi di una verginità percepita come ingombro. E con il fondale di una Napoli percorsa in lungo e in largo, Ferrante lacera il velo dell’ipocrisia morale, intellettuale e esistenziale della borghesia napoletana dei primi anni ’90, impastoiata in relazioni che svelano ai figli l’inganno di un «mondo vischioso, ripugnante, del tutto diverso da quello che loro stessi ci avevano propagandato», fin qui mai raccontato con tanta spietata forza evocativa. E magari potrebbe nascerne una nuova saga.