Il nuovo romanzo di Elena Ferrante, La vita bugiarda degli adulti, contiene tutto ciò che il lettore di Elena Ferrante si può aspettare. Cioè una variazione sui suoi temi principali: l’abbandono, il tormento dei legami familiari e di amicizia, lo spaesamento della crescita e lo sdoppiamento, il riaffiorare del passato in forma di macerie, cioè quella che viene chiamata qua e là la «frantumaglia» del tempo. Quasi sempre, da L’amore molesto a L’amica geniale, l’io narrante parte da un’assenza. E l’incipit di questa Vita bugiarda lo conferma: «Due anni prima di andarsene di casa mio padre disse a mia madre che ero molto brutta». Già ieri numerosi siti online hanno bruciato i tempi per raccontare la trama del libro, che si estende dai 12 ai 16 anni della protagonista (e io narrante), Giovanna, nata il 3 giugno 1979. Siamo dunque nel decennio ‘90, e mentre il tempo storico del contesto non si avverte, lo spazio è ben circoscritto: tra il Vomero e il Pascone, le due Napoli, la città di sopra e da quella di sotto, ugualmente invivibili (in aggiunta un paio di trasferte a Milano).
Il racconto nasce, come un lungo flashback, a partire da quel trauma, la vertigine della frase paterna in cui la bambina precipita improvvisamente: è una sorta di motore acceso da anni nella mente immaginativa dell’autrice che già in un articolo del 2005 evocava la «forza devastante» delle parole pronunciate da Madame Bovary a proposito della figlia Berthe. Il desiderio dichiarato della Ferrante era allora isolare quel pensiero per attribuirlo a sua madre, magari tradotto in napoletano: «comm’è brutta chesta bambina», saggiarne l’effetto sulla pagina, «sentirne il peso» e valutare se davvero una donna potesse mai pronunciare qualcosa di simile. O fosse piuttosto una frase maschile. Eccola qua la risposta, magari provvisoria, nell’incipit di questo nuovo romanzo, dove compare appunto sulle labbra dell’amato papà Andrea, professore di storia e filosofia in un prestigioso liceo cittadino, nonché intellettuale (di sinistra) attivo in un gruppo politico e in riviste militanti. Meno in vista la madre Nella, insegnante pure lei, di latino e greco, e a tempo perso correttrice di bozze di romanzi rosa. Genitori felici solo in apparenza, visto che via via affiora la doppia vita del padre e poi anche quella della madre, in segreta relazione adultera con una coppia di storici e fidati amici (genitori a loro volta di Angela e Ida). Incroci che emergono a distanza di anni con tutto il bagaglio di violenza, di sensi di colpa, di complicità dolorose, di falsità e di giustificazioni postume. L’intreccio di vite doppie si sviluppa, ovviamente, insieme al continuo capovolgimento delle identità e alla vorticosa confusione tra buoni e cattivi. La cattiva per eccellenza è (sembrerebbe) zia Vittoria, odiatissima sorella di Andrea, odiatissimo a sua volta: presentata come una specie di strega malefica, capace però di emanare un fascino magnetico agli occhi di Giovanna, essendo tutto ciò che non sono (o non appaiono) i genitori: sanguigna, vendicativa, triviale, sincera fino alla crudeltà e però capace di un amore totale. È lei che continua a consigliare alla nipote: «Guardali bene i tuoi genitori». Un monito che alla lunga Giannina (il nome assegnatole da Vittoria) metterà a frutto nei confronti della stessa zia, con la quale a un certo punto ha rischiato pericolosamente di identificarsi, nel consueto gioco di specchi ferrantiano.
Qui non si sa esattamente dove stia la sincerità o la verità e dove la menzogna, dove l’onestà e dove la perfidia, dove la dolcezza protettiva e dove la violenza. Sicché tutto sommato, a romanzo chiuso, si sospetta che ogni personaggio sia un po’ grande e un po’ meschino, un po’ vittima e un po’ carnefice, nel continuo rimbalzo di accuse reciproche e di riconoscimenti di colpa (sempre provvisori). E la morale della favola (con orchi da affrontare, ostacoli da superare e oggetti magici da conquistare) è che alle bugue degli adulti dovranno adeguarsi anche i loro figli e le loro figlie se vorranno crescere: non crescere serenamente, ma almeno crescere, formarsi. «Perfezionai il mio modo di mentire dicendo la verità», ammette a un certo punto Giovanna. «Forse sarebbe tutto meno complicato, se si dicesse la verità», esclama la ragazza a Costanza, madre di Angela e di Ida. Risposta scontata: «La verità è difficile, crescendo lo capirai».
Si diceva che c’è tutto ciò che i ferrantiani e le ferrantiane ferventi possono aspettarsi dopo aver amato la quadrilogia di Elena e Lila. Compreso il saliscendi dall’aria sottile del pensiero fino ai bassifondi delle più truci oscenità e abiezioni: personaggi devoti alla lettura, alla cultura classica, qui anche ai Vangeli (il giovane teologo Roberto) e altri fissati solo sul sesso (il «chiavare» dei maschi, ma non solo). Già al primo incontro con la nipotina, Vittoria non risparmia descrizioni puntuali del suo approccio con l’adorato amante: «Enzo mi baciava e mi toccava e mi leccava da tutte le parti, e anche io toccavo lui e me lo baciavo...». Si sarà capito che siamo più vicini alle atmosfere dell’Amica geniale, sia pure trasferite dagli anni del boom ai Novanta (ma in fondo Napoli è sempre maledettamente se stessa) che a quelle più rarefatte dell’insuperato esordio, L’amore molesto. Si ha l’impressione che Ferrante senta l’esigenza sempre più incalzante di alzare la temperatura del racconto fino all’incandescenza iperbolica, cancellando le sfumature intermedie e costringendosi a far tornare tutti i conti in modo a volte troppo scoperto: l’odissea del braccialetto-talismano che passa di mano in mano assumendo ogni volta una diversa valenza simbolica è quasi estenuante (i simboli, dirà alla figlia papà Andrea, sono importanti: «il bene diventa male senza che te ne rendi conto»). Così come risulta alla fine alquanto forzata la necessità di quadrare i numerosi bilanci dei do ut des di menzogne e di tradimenti (compresa la relazione nascosta della madre Nella con l’amico migliore dell’ex marito), in un continuo succedersi di colpi di teatro visibilmente dimostrativi (tutto è menzogna, ma tutto può essere anche verità, tutto è falsità ma tutto può essere anche sentimento autentico).
Dentro la struttura a flashback, che come si diceva ripete l’impianto a ritroso dei romanzi precedenti, il tessuto linguistico è lievemente, ma solo lievemente, espressionistico. Non è una novità: le montagne russe che ci scaraventano di colpo dalle vette degli ambienti intellettuali ai precipizi più cupi dei margini e degli antri malavitosi richiedono registri di stile molto variabili, a seconda delle circostanze e dalle bocche che parlano (Ferrante è assoluta maestra del dialogo!). Peccato che dalle trame sonore venga bandito quasi del tutto il colore dialettale, il che costringe spesso il narratore a segnalare, a mo’ di didascalia, che quella frase o quell’altra è stata detta in napoletano. È questo, si sa, lo stile Ferrante, lungi ormai dall’evocare quello di Anna Maria Ortese. A chi volesse aggiornarsi sulla sua identità si consiglia di leggere, in parallelo, Lacci di Domenico Starnone.