Va via in un soffio “Kant e il vestitino rosso”. Poche pagine, una scrittura lieve e nelle sue venature una notevole confidenza con la poesia. Si legge rapidamente questo piccolo libro tradotto e pubblicato in Italia da Edizioni e/o nel 2017. Lamia Berrada-Berca è una scrittrice franco-marocchina ma le sue origini e la sua vita passano per Parigi, Berna, Fez, Aberdeen e il sud del Marocco senza dimenticare una sorella che vive a Montreal e un marito di origini siciliane. Un meticciato di culture, lingue, visioni, tradizioni ed esperienze che confluiscono, inevitabilmente, nell’arte di Lamia Berrada-Berca. Un libro inaspettato e, forse anche per questo, estremamente piacevole e denso.
La brevità fa la forza, anche in questo caso. Paginette che sembrano scivolare innocue ma che, in realtà, sono solide e pesanti come rocce. Perché non si può scrivere altrimenti la scoperta di un desiderio se il desiderio nasce in chi non sa cosa significhi desiderare. Molto succede in vita per via di quella sensazione fatta di impulso, sogno e aspirazione che muove gli umani da quando sono umani. Il desiderio che ci invoglia e ci invita, dalla notte dei tempi, a volere e quindi a sperare e quindi a mutare. Basta un vestitino rosso, quello del titolo. È da qui che si origina la storia. “A trentatré anni lei ha voglia, sì, per la prima volta potrebbe, sarebbe in grado di esprimersi pressappoco così: ha voglia di quel vestito rosso. Non è un desiderio. Non è per il vestito in sé. È perché è rosso, basta quello. Allora pensa di essere diventata matta, e corre a rifugiarsi a casa”.
Una donna coperta da un burqa, che da sempre la esclude e la cancella dal mondo, si trova per caso di fronte a un vestito rosso esposto in una vetrina. Vorrebbe averlo perché è una donna, perché è un bell’abito, perché è rosso. Considerazioni che parrebbero banali se non arrivassero da una persona a cui non è mai stato insegnato a percepire alcun desiderio. I desideri sono degli uomini, non delle donne: “Confinata in quel nero è protetta, protetta dal desiderio degli uomini che, loro sì, hanno il diritto di desiderare. Ma ciò che fanno o desiderano fare gli uomini è sempre normale”. Il diritto al desiderio è solo per i maschi, dunque. Lei non dovrebbe neppure sforzarsi di pensare. La bambina che è stata ha imparato che tutto può diventare peccato. Nessuno le ha insegnato a leggere o a scrivere ma fin da subito le hanno tolto dalla testa ogni fantasia: alle donne basta obbedire ai mariti. “A poco a poco, la bambina perde l’innocenza di non sapere neppure cosa sia un piccolissimo peccato”.
Per parecchie pagine lei è solo una donna, poi capiremo che si chiama Aminata. Una rivelazione che si realizza quasi fosse una microscopica creazione di sé, la consapevolezza di avere un volto, dei capelli, delle mani, un corpo e quindi anche un nome. Aver visto quell’abito rosso diventa un segreto che la donna può confessare solo alla sua bambina. Mai suo marito capirebbe, mai suo marito potrebbe perdonarla. La donna conosce per lo più la profondità del silenzio in cui si rifugia e che la protegge, proprio come fa il burqa quando esce di casa.
Poi si accorge di un libro lasciato sullo zerbino del vicino di pianerottolo. Un libro che qualcuno ha dimenticato o solo abbandonato in attesa che venisse recuperato. Inizialmente cerca di capire ma poi preferisce ignorare: lei non sa leggere e capisce appena la lingua della gente che vive nel Paese in cui suo marito ha deciso di portarla dopo il matrimonio. Parigi è un’incognita e lei conosce appena le varianti del quartiere in cui si muove poco e con circospezione. Poi si decide, esce di notte e va a prendere il libro. “Non è destinato a lei, quel libro, ma in lei tutto dice il contrario”. Lo nasconde in una pentola.
Quel libro è Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo? di Immanuel Kant. Se ne fa leggere qualche pagina dalla sua bambina. Illuminismo e Islam radicale. C’è qualcosa di più antitetico? Un vestito rosso e poi l’illuminismo di un signore che scrive “Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza!”. Le parole di Kant aprono la carne di Aminata e ne stravolgono la coscienza, rovesciano i suoi pensieri e la spingono a vedere ben oltre ciò che le è stato sempre insegnato fosse inevitabile. “Perché nella sua cultura bisogna sempre “nascondere” le cose mentre invece bisognerebbe fare di tutto per spargere luce sulla realtà in cui vivono? Spargere luce. Il più possibile…”.
La scoperta “illuminista” di dover e poter essere l’unica responsabile di se stessa è un misto di paura e confusione ma diventa anche la linea perfetta verso la libertà di capire, di scegliere e di volere. Per sé e per sé sola. Aminata sente di non essere nel peccato se sceglie di vestire di rosso un corpo che è sempre stata costretta a cancellare e dimenticare. Ed è esattamente qui, in questa rischiarata mutazione, compiuta da una donna piena di troppi silenzi e vissuta come un’ombra senza faccia e senza sogni, che sta il dono prezioso di “Kant e il vestitino rosso”.