Sacha, il tuo ultimo romanzo, Ossigeno, ancorchè pura narrativa e con debite differenze, ha la cifra del reale dell’attinenza a fatti di cronaca accaduti. Vorrei chiederti in che momento hai avvertito lo scatto della molla che ti ha ispirato e spinto verso la storia che hai poi raccontato.
In realtà questa vicenda non è mai accaduta – a quanto ne sappiamo. Ero assillato da questa scena: un giorno arrivano i carabinieri e portano via tuo padre. Viene fuori che non è la persona che hai sempre conosciuto: un mostro. Come fa, una persona, ad “accogliere” un fatto del genere? Come ci si relaziona con sé stessi? Il detto “Il sangue non è acqua” è la prima cosa a cui si pensa, forse. Ma c’è di più. Quella è la persona che ti ha nutrito, istruito, consigliato, amato, indirizzato… Un mostro. Come la risolvi? In Ossigeno Carlo Maria Balestri è uno stimatissimo antropologo di fama mondiale. Chiude delle ragazzine in un container e le tiene lì, senza toccarle (non c’è nessuna vena estrema di stupri, torture, violenze corporali…). Anzi, Carlo Maria Balestri istruisce le sue vittime, come succede a Laura: rapita a otto anni; restituita al mondo a ventidue. Esce dalla gabbia ed è un genio dei computer. Conosce quattro lingue. Come viene detto nel libro: è pronta a fare trading… Eppure. Mi interessava l’ombra del mostro. Il tappeto del Male, le sue conseguenze. Non c’è nessuna caccia al killer, nessuna indagine: il maniaco viene catturato (in modo anche piuttosto banale) e basta. E dopo? Cosa succede dopo un fatto del genere? Mi interessava ispezionare quelle macerie. Ho cercato di dare un nome a ciò che resta. Ossigeno comincia dove finisce un thriller, credo.
In Ossigeno la vicenda è una ed è il sotteso di ogni pagina. Ciò che dà corpo e vita alle pagine sono i punti di vista. Non dai voce a quello del Mostro del Golfo, paradossalmente forse il più facile tra tutti da sviscerare, e il più “commerciale”, per concentrarti su altri: Luca, il figlio; Laura, la vittima; la madre di Laura, e l’amica di Laura, Martina. Fornisci loro moventi e motivazioni delicate e deflagranti allo stesso tempo. Come ti sei calato in queste mai scontate pieghe dell’anima. I pensieri che hai attribuito loro quanta forza immaginativa ed evocativa ti hanno richiesto?
Ossigeno è (vorrebbe essere) un “gioco” di gabbie. A volte fisiche, di ferro spesso; altre della mente. Cercavo i rovesciamenti. Il Mostro del Golfo era l’occasione – estrema, come spesso accade nei romanzi; insomma, un modo per provare a raccontare l’orfanotrofio interiore cui sei chiamato quando ti accorgi che i tuoi genitori (il tuo sangue) non sono quel sogno stupendo di quando eri bambino. In Ossigeno c’è un uomo che reclude ragazzine; le alternative di tutti i giorni si sprecano: potrebbe essere un bravo padre di famiglia che di notte si veste da donna, che ruba o estorce denaro; magari è un satanista convinto, o semplicemente uno che ha giurato di aver smesso di fumare e alle sei e ventitré, fuori dal cantiere, se ne rolla una. Carlo Maria Balestri è la B-side di una percezione. Nel gesto estremo di questo libro si parla di un “tappeto del Male”, che poi deflagra, va a bagnare i piedi di tutti: il figlio, la ragazzina rapita, la sua amica…; varie famiglie raccolgono i detriti. Entrare nella stanza della reclusione è stato un “esercizio” non facile; eppure già lì, sul comodino. Tutti siamo alterati. Viziati da dinamiche ancestrali. Siamo un risultato, nel bene e nel male. Io, per esempio: forse vengo dal sangue di un tagliagole del Quattrocento, e costretto a lanciare la palla avanti. Ossigeno vorrebbe andare su quel territorio (anche).
La madre e l’amica di Laura, Martina. Vittime e carnefici in un certo senso anche loro? Vittime e carnefici di se stesse? In un processo senza appello che prevede solo un verdetto?
Sì. No. Non è detto. Forse. Come per tutti. Il punto però è quello: un processo senza appello. E andare avanti. Trascinarsi nel mondo, nonostante che. Mi sembra un tema bellissimo (terrificante). Probabilmente è una bella fetta di quella roba che spinge certa gente a darsi alle arti creative.
Sacha, metti in scena uno spaccato di società nel quale, con i dovuti distinguo, la normalità delle apparenze non è quella del reale. Dove si trova la vera normalità? Soprattutto, esiste?
Siamo tutti sedati-distratti-stupiti-collusi-incompresi. Eccetera.
Ti racconto questa scena. Tempo fa ero con un caro amico. Facevamo colazione. Dalla strada arriva una frenata paurosa, tutti pensano al peggio. Ma niente; per fortuna non si sono fatti niente. Un’auto e uno scooter. Piccola (o grande, chissà) tragedia sfiorata. Capita ogni momento. Tutti tiriamo il fiato. Ma quello col casco mette il motorino al cavalletto; l’altro scende di macchina. Cominciano a offendersi. Partono le botte. Si fanno male. (Pensa all’immagine del guidatore della Bmw che prende a testate quello col casco. Portalo a potenza.)
Tutto questo per dire: non era successo niente. Lo hanno fatto succedere. C’era una rabbia insana in quelle reazioni. Lo vedevamo tutti. Riconoscevamo quel detrito. Quel delirio. E tu mi chiedi dove sta la normalità… Vorrei davvero risponderti con i cuori di Kiss me Licia, ma (per fortuna) funzioniamo in modo diverso: c’è il veleno. Ci sono intemperie e storture inimmaginabili. Scriviamo, facciamo film e canzoni. Giriamo serie tv, vomitiamo poesie a valanga; scalpelliamo pezzi di marmo. Qualcosa vorrà dire – a parte fare dei soldi, nel caso. Dare un nome alle deviazioni (intime e plateali) è un mestiere meraviglioso. Un’occasione stellare. Perché poi si muore. Tra seimilatrecento anni troveranno le macerie sepolte di Torino, di Belgrado. Eravamo noi: anormali, scossi. E belli da impazzire, no? Anche con le bocche a gallina su Instagram.
Gioco con il titolo di un tuo precedente romanzo di grande successo, Le case del malcontento. C’è del malcontento in tutte le case che descrivi in Ossigeno. Rilevi che questo malessere origini da una matrice comune, oppure ogni famiglia infelice è infelice a modo suo?
L’ultima che hai detto, secondo me. Almeno, d’istinto andrei lì. Siamo tutti infelici a modo nostro. Dal sangue nostro. Dalla locazione geografica che ci caratterizza, consacra, definisce. Il grande pubblico vuole storie confortanti, dal finale consolatorio: il Male consegnato al Bene e tutti contenti. Qualcosa vorrà dire. Le canzoni del mainstream banalizzano sentimenti complessi. Tutto sembra voler tirare la faccenda in quella direzione: via le cose difficili; evviva il mondo veloce, per un momento complicato ma in fondo semplice. Insieme, siamo al centro di una bella deriva: le produzioni audiovisive coraggiose (per dire: Breaking Bad, toh). Nelle famiglie succede la stessa cosa, da migliaia di anni: onda contro onda. Dagli schermi ci vengono restituiti certi umori (tendenze) generali. Spuma. La cosa bella di alcune produzioni la interpreto così: “Non sei solo; né l’unico”. In Ossigeno cerca di vibrare la medesima corda.
Ossigeno si apre e si chiude con una logica che richiama la figura di un uroboro. È nel tuo intento un cerchio che si chiude o una manetta che stringe il polso? Assoluzione? Condanna? O vita che comunque come il fiore non lo ferma nemmeno il metallo: ha trovato uno spiraglio e ci si è ficcato dentro?
(Grazie per la citazione.) Ancora: gabbie. Ideali o di metallo potente, poco importa. Poi, sì: tutti ci mangiamo la coda. Se ogni uomo è la sua circostanza, è vero anche che ogni uomo è la possibilità del proprio rilancio. Possiamo riaccordare, deviare, spostare, riscrivere flussi di Storia ancestrale. Nonostante i mostri, le B-side di chi ci ha generato. “Correggere” suona arrogante, lo so. E in generale temo, entrando su queste pieghe, le semplificazioni di zona new age. Con Ossigeno l’invito è semplice, dovuto: ammazza il padre, la madre. Capiscili, amali, accoglili. Ma va’ avanti; continua un racconto. Tra seimilatrecento anni potresti ancora essere protagonista di qualcosa.