“Per la sua polifonica scrittura nel raccontare un monumento alla sofferenza e al coraggio dei nostri tempi”. Con questa motivazione, nell’autunno del 2015, Svetlana Aleksievič è stata insignita del Premio Nobel per la Letteratura, ma chi i suoi libri li ha letti lo ha vissuto direttamente sulla propria pelle, nella propria carne il male che fanno le storie a cui dà voce.
Storie di vittime ma anche di carnefici, storie di guerra, di torture, stragi, miseria, ma anche d’amore, di amicizia, di solidarietà. Storie che Aleksievič ha raccolto in giro per il Novecento. Storie che senza di lei sarebbero rimaste senza voce, dimenticate negli angoli della Storia, ma che passando dal suo registratore e rimesse in pagina dalla sua scrittura netta e limpida, senza fronzoli, senza interferenze, senza retorica, diventano potenti come bombe, profonde come coltellate.
La guerra non ha un volto di donna, Gli ultimi testimoni, Tempo di seconda mano, per stare ai suoi ultimi tre, pubblicati da Bompiani, ma anche Ragazzi di zinco, Preghiera per Chernobyl e Incantati dalla morte, pubblicati da Edizioni e/o: raccolti ascoltando pazientemente centinaia di persone, i suoi libri sono mosaici di racconti che commuovono, che straziano, che marchiano a fuoco la memoria dei lettori e non la lasciano più.
“Di sicuro la scrittura è una forza, ma non so se è un’arma.” La voce di Svetlana Aleksievič è dolce e tranquilla. Parla lentamente, scandendo in russo le frasi, come a voler dar tempo all’interprete di segnarsi il suo discorso senza fretta, sulle pagine bianche del taccuino.
“In generale credo che dobbiamo stare molto attenti a non sopravvalutarci, a non sopravvalutare il nostro ruolo di scrittori. Sai, l’uomo, l’essere umano, è qualcosa di molto complesso e ognuno viene influenzato da cose diverse, in modo diverso, in grado diverso. La cosa più importante è che ciascuno, chi scrive in modo particolare, faccia il suo lavoro modo indipendente. Senza farsi condizionare da qualsiasi altra considerazione. Deve fare quello che si sente, senza farsi condizionare da nessuno, nemmeno dalle proprie delusioni.”
Nella sua carriera ha intervistato centinaia, forse migliaia di persone. Che cosa ha imparato ascoltando le loro voci e i loro racconti?
Ho imparato a scrivere. Ho imparato a scrivere ascoltando tutte quelle voci. Da una parte c’era paura nelle persone, perché l’essere umano è timoroso per natura, dall’altra poi, quando si lasciavano andare, rimanevo estremamente colpita, a volte sconvolta dalla loro capacità di ricordare e di raccontare. Di raccontare la sofferenza, di raccontare l’amore. Quindi proprio dando voce a tutte le loro voci io ho imparato a modulare la mia, a scrivere.
Cosa si prova nel dare la voce, e quindi in qualche modo la vita, agli altri?
Sono stata felice di essere arrivata in tempo. Per esempio, tutte le donne che ho intervistato per il libro La guerra non ha un volto di donna: ormai se ne sono andate tutte, erano vecchie. Per quanto riguarda Chernobyl, sono arrivata in tempo per intervistare e ascoltare le storie dei cacciatori, di quelli che avevano il compito di abbattere tutti gli animali dopo la contaminazione. Molto spesso mi ritrovavo a suonare campanelli a cui non rispondeva più nessuno. Adesso sono certamente tutti morti. La mia più grande soddisfazione è l’essere stata uno strumento utile nel momento giusto. Sono felice di avere deciso di fare questo lavoro e di essere stata pronta fintanto che il tempo era giusto per farlo.
Sente una responsabilità verso di loro? Un peso?
Sì, sento certamente la responsabilità, ma non è un peso perché cerco di fare sempre onestamente il mio lavoro. Le faccio un esempio: quando ero in Afghanistan a scrivere il libro Ragazzi di zinco, a un certo punto i mujaheddin mi hanno mostrato le armi che usavano e con cui avevano a che fare: fucili, bombe a mano, ma anche mine antiuomo. Mi fecero vedere una mina che aveva la forma di un giocattolo e mi raccontarono di quanto fosse pericolosa per i bambini. Qualche giorno dopo, poi, venne da me l’ufficiale che mi accompagnava e mi disse che quella mina era appena saltata vicino a un bambino e che se volevo potevo andare a vedere che cosa ne restava. C’erano solo brandelli di carne. Cinquanta gradi all’ombra. Lo spettacolo era straziante. Ma in quel momento sentii che esserci era il mio dovere, perché, mi dicevo, se ho intrapreso questa missione, devo portarla avanti fino in fondo. Quando sono arrivata sul luogo dell’esplosione sono svenuta, perché non sono certo una supereroina, ma quello che avevo dentro era un lucido senso del dovere. Dovevo scrivere. Sono tornata a casa e mi sono messa a scrivere.
Mi parlava prima della paura e della reticenza che ha trovato spesso, quantomeno in prima battuta, nelle persone che ha intervistato. Ma lei, Svetlana Aleksievič, di cosa ha paura?
Di una cosa sola, delle cose che ho sentito raccontare, di quelle che ascolterò. Ne ho sentite di terribili, testimonianze agghiaccianti, ma ho anche assistito al fatto che molte di quelle persone in quelle circostanze hanno saputo restare umane, e questo mi ha dato il coraggio di non mollare.
È l’atto dello scrivere che le dà coraggio, quindi?
Non sempre, perché quando si scrive si va ancora più nel profondo delle cose e quelle diventano ancora più paurose.
Molti giornalisti contemporanei abusano della prima persona e si mettono in mezzo tra chi li legge e le storie che raccontano. Lei invece sembra sparire, lasciando tutto lo spazio ai suoi personaggi, anche se la sua voce è inconfondibile. Come fa?
Nel momento in cui ho avuto la percezione che la mia vita non durerà per sempre e che non sono eterna ho cancellato immediatamente la parola “Io” dalla mia scrittura. Avvicinandomi a queste sofferenze indicibili, poi, sentivo di non avere alcun diritto di mettermi in primo piano. Sarebbe stato grottesco. Una volta ho incontrato una mamma che aveva sepolto la sua bimba a Chernobyl. Mi raccontò che a questa bambina mancavano delle dita della mano. La madre era lì davanti a me, e piangeva, e ripeteva straziata che avrebbe voluto almeno seppellirla tutta intera, sua figlia. Ecco, di fronte a cose come questa, come si fa a pensare a se stessi?
Un’ultima domanda, la più semplice ma al tempo stesso la più difficile: di fronte a quello a cui stiamo assistendo, tra tensioni geopolitiche, guerre, minacce ambientali, pensando al futuro lei si considera ottimista o pessimista?
Non sono né dell’una né dell’altra parte, io provo solo una immensa curiosità, per tutto. La vita e il mondo continuano a interessarmi, tutto ciò che mi accade intorno mi interessa e io faccio di tutto per non perdere questa curiosità e questo interesse. È la cosa più preziosa che c’è.