Sono due gli elementi letterari a lungo termine che trovo più interessanti nei romanzi di Christelle Dabos. Nell’atto piuttosto forsennato di leggerli a prevalere su tutto è la sua capacità di scrittrice, dato un certo numero di capitoli introduttivi, di far scattare una trappola in cui il lettore cade e, in un continuo gioco di rilanci e colpi di scena a fine capitolo, il poveretto è costretto a leggere senza pause, fino a giungere inesorabile a fine volume e a fine nottata.
Questa qualità rende molto piacevole la lettura di un romanzo che si divora a grandi tocchi, senza processarlo e analizzarlo nelle sue sfumature di sapori e profumi. A rendere l’esperienza di lettura in qualche modo persistente e duratura intervengono le due qualità a cui accennavo all’inizio, che permettono anche a La memoria di Babel di lasciare dietro di sé una scia abbastanza persistente nel pensiero, oltre al bisogno spasmodico di leggere il volume successivo.
La prima qualità che rende la saga fantasy francese molto più di una semplice sveltina letteraria è la produzione immaginifica di prima categoria di Dabos. Non ha un livello da autrice visionaria, ma libro dopo libro ha saputo creare un mondo fantastico sempre più slegato dai suoi riferimenti narrativi iniziali (vedi la saga di Harry Potter), sempre più personale e convincente. Se nel precedente Gli scomparsi di Chiardiluna avevo un po’ sofferto la gestione non proprio coerente degli spazi e e delle geografie dell’Arca del Polo Nord, questo La memoria di Babel mi ha colpito per come segni una sostanziale riorganizzazione del mondo delle Arche, ampliando all’improvviso la prospettiva.
Trasportando la sua protagonista sull’Arca di Babel – cosmopolita per vocazione e formata di tante arche più piccole – Dabos riesce a fare agevolmente un giro panoramico sull’intero mondo distrutto e disgregato dove ambienta la sua storia. Ogni singolo cittadino proveniente da altre Arche che viene descritto nel suo abbigliamenti, nella sua etnia e nei suoi poteri permette a Ofelia e al lettore di esplorare almeno in parte la vastità della mappa dove sono dislocati i vari Spiriti di famiglia e le loro case, ridimensionando l’importanza di Anima e Polo. Così facendo anche alcune aberrazioni della loro costruzione svaniscono e il sistema delle Arche – che all’interno della narrazione dovrebbe essere sul punto di crollare per una profezia di Dio – è più solido che mai.
Babel è per sua stessa natura e formazione un piccolo saggio dell’estrema inventiva dell’autrice, che rielabora con agio e talvolta spregiudicatezza suggestioni mitologiche, immagini bibliche, topoi da letteratura fantastica e creature magiche fino a creare questo mondo votato all’eccellenza, ossessionato dalla correttezza, che ruota attorno alla più sterile conoscenza e che, prevedibilmente, si rivela più ingiusto, oppressivo e bacchettone che mai. Sul bacchettone poi, come mi è capitato più volte di sottolineare in passato, Christelle Dabos si conferma la più puritana delle autrici francesi che mi sia mai capitato di leggere, assistita da un provvidenziale ascetismo imposto dalla legge di Babel. Se personaggi introversi e silenziosi come Octavio e Elisabeth confermano la sua capacità di rendere interessanti e affascinanti (veritiere?) psicologie di questo tipo, certi passaggi dedicati a Mediana e ad altri personaggi femminili trattengono a stento un certo (pre)giudizio verso un approccio esplicito ai sentimenti. D’altronde l’inno all’introversione come manifestazione di estrema sensibilità è il leitmotif letterario del decennio, per cui niente di nuovo sotto il sole. Certo che se a un certo punto qualcuno usasse un’espressione come “donnaccia!” all’interno di un romanzo della Dabos, non mi stupirei.
La seconda qualità che ammiro molto in Dabos è particolarmente evidente in questo terzo romanzo e alla lunga rischia di diventare il suo limite. La scrittrice di fatto è giunta alla terza riscrittura del medesimo libro. Abbiamo Ofelia che si ritrova in una posizione di svantaggio esteriore e confusione interiore, costretta a nascondere la propria identità su Babel, così come accadde al Polo. Qui per tentare di diventare precorritrice dovrà affrontare un duro periodi di discriminazione e prevaricazioni che ne fortificheranno le intenzioni, quasi fosse un percorso ascetico verso la santità fatto di continue mortificazioni corporee. A mantenere una certa tensione nella storia c’è il tentativo di trovare una giusta distanza da Thorn, che a inizio romanzo è sempre il grande assente, poi fa il suo arrivo ma è troppo vicino e troppo repentino, generando un catastrofico allontanamento che verrà cancellato poco a poco, con una lentezza esasperante. Mentre esploriamo Babel e ne conosciamo i segreti, così come avvenuto sulle precedenti Arche, a sostenere la trama verticale del libro c’è un intrigo di natura crime. Là erano sparizioni, qui sono aggressioni e omicidi. Il tutto sembra slegato, almeno fino al gran finale dove diventa un’amalgama gestita con perizia dall’autrice, per cambiare di nuovo le carte in tavola.
Non posso che apprezzare l’abilità con cui, a partire dallo stesso medesimo svolgimento, Dabos tira fuori dal cappello un libro dallo svolgimento appassionato e inaspettato nelle sue svolte narrative. Tuttavia così si portano avanti i limiti dei precedenti romanzi. Così ancora una volta Ofelia è il centro assoluto della narrazione, l’unico personaggio in cui si palesino con coerenza sfaccettature positive e negative, perché Dabos riesce a gestire il marito Thorn “l’uomo degli -issimi” solo per brevi tratti, rischiando di perderne il controllo. Qui poi lo ritroviamo danneggiato nel corpo e nello spirito, però i suoi strascichi dall’incontro con Dio sembrano molto più superficiali e pretestuosi di quelli di Ofelia. Se l’apatia di Ofelia sembra un risultato quasi naturale, l’accresciuta fobia di Thorn per i germi è raccontata senza però essere davvero inserita, problematizzata, esplorata.
Ancora una volta risulta molto più interessante il contorno che delimita gli spazi vuoti dei loro animi (in primis quei poco meno di tre anni che Ofelia ha passato in uno stato semi catatonico, intontita dalla paura e dal dolore della separazione) rispetto a ciò che succede nei risvolti narrativi espliciti, che non perdono del tutto un certo sapore adolescenziale. È un peccato che per ripetere le sue convinzioni che già conosciamo Ofelia butti lì senza approfondire affermazioni potenti come la realizzazione che i passati tormenti non l’abbiano resa più coraggiosa e forte, ma anzi la rendano preda di una paura preventiva, figlia della consapevolezza. D’altronde Dabos si dimostra particolarmente adulta e incisiva nell’indagare i vuoti dei suoi personaggi, quei buchi che il dolore, la mancanza e il disagio fisico e psicologico (vedi l’introduzione su più fronti e con più personaggi del tema del handicap fisico e del disagio psicologico) scavano dentro di loro. La materia piena dell’amore rimane di natura poco più che stilnovistica e non c’è mai il calore della carne, il tremolio e l’urgenza. Almeno a livello di sensazione: il libro di scalda e si fa avvolgente nel consolare i suoi personaggi nel momento del dolore, ma diventa un testimone improvvisamente freddo e distaccato delle loro passioni terrene.