Quando iniziò a scrivere La bambina sulla banchisa, Adélalde Bon voleva utilizzare la prima persona, perché in quel libro avrebbe raccontato la pura e anche sporca verità. Ma agli inizi fu la terza che le venne di getto. Solo dopo affiorò inesorabile l'«io». E poi in alcuni casi perfino il «tu», per rivolgersi alla protagonista, che restava comunque Adélaide. Non sapeva il perché di quelle scelte, lo capirà alla fine: la terza persona per descrivere se stessa quando era dissociata, quando si vedeva vittima dello stupro, che ha segnato la sua vita, e preda delle derive successive. Passava poi alla prima persona, quando era lei oggi, faticosamente rinata. E il «tu», invece, era per la bambina che non c'è più, ingenua e spensierata. Quella di prima.
Prima di essere violentata a nove anni sulle scale del palazzo di casa da uno sconosciuto che anni dopo verrà catturato, Giovanni Costa, un siciliano detto l'elettricista perché, con la scusa di riparare un guasto ai circuiti, entrava negli appartamenti della Parigi bene per rubare. Non solo: tra un furto e l'altro, ha stuprato centinaia di bambine, talvolta esche utilizzate per introdursi a casa loro. Adélalde, figlia di un ricco imprenditore e mamma editrice, è stata una delle sue vittime.
Oggi ha 38 anni. Diplomata all'Ecole Supérieure d'Art dramatique di Parigi, per anni ha fatto l'attrice, in tv e a teatro. È diventata operatrice sociale nella banlieue. La bambina sulla banchisa è il suo primo libro e non è un romanzo, ma è scritto come se lo fosse, con uno stile poetico, fresco, sensibile, giusto, senza mai compiacenze. Racconta tutto, anche gli anni di droghe e di amanti infilzati uno dietro l'altro (lei, la bambina felice che fu, «non sa che ormai è in guerra e che l'esercito nemico vive dentro di lei») e gli anni di psicoanalisi («Non sono pazza, non sono spregevole, non sono debole, non sono violenta. Semplicemente, un giorno di maggio mi ha presa e mi ha divorata»). Fino a quel colpo di scena, che è vita vissuta: dopo 23 anni Costa viene ripescato e lei partecipa al processo. «Tu Giovanni mi fissi e io sono tutta intera occupata a sostenere il tuo sguardo, a non dissociarmi questa volta, a respirare, a sentire la mia rabbia bruciarmi dentro per tutto il tempo in cui i tuoi occhi pungenti cercano di far abbassare i miei. Alla fine sei tua distoglierli e in questo minuscolo trionfo trovo la soglia della mia vira futura».