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Il '500 di Müntzer, prete e rivoluzionario

Autore: Chiara Zappa
Testata: Avvenire
Data: 11 ottobre 2019

Nei primi anni del Cinquecento, agli albori della Riforma luterana, un'onda di inquietudine e disperazione attraversava le campagne tedesche, prostrate dalla miseria e dall'ineguaglianza, e raggiungeva le città, dove artigiani, operai, piccoli commercianti venivano schiacciati dalla prepotenza dell'aristocrazia e dall'ipocrisia del clero. Similmente a come era successo nei due secoli precedenti in Inghilterra, dove religiosi come John Wycliffe e John Ball avevano ispirato tumultuose ribellioni popolari poi represse nel sangue, ora anche da Zwickau ad Allstedt, in Sassonia, fino a Praga e all'Alto Adige, masse di diseredati senza nome aspettavano solo qualcuno che incendiasse la loro disperazione per farne un esercito in lotta contro le ingiustizie e i privilegi.

Il condottiero di quelle che nei libri di storia del liceo vengono ricordate al massimo come non meglio identificate "rivolte contadine" divenne Thomas Müntzer, giovane sacerdote avido lettore delle Scritture - conosceva il latino, il greco e l'ebraico - che si avvicinò ai teologi della Riforma per poi andare oltre e spingere sua spiritualità incentrata sull'ispirazione diretta di Dio fino all'istanza di un totale e radicale rinnovamento sociale: «Tutto è di tutti, i tiranni vanno abbattuti» predicava. A ripercorrerne la vicenda, letta come rivoluzione proletaria dalla storiografia marxista a partire da un celebre saggio di Engels del 1850, è oggi Éric Vuillard, lo scrittore e cineasta francese che nel 2017 vinse il Prix Goncourt per il suo L'ordine del giorno (pubblicato in Italia da e/o), in cui raccontava il sostegno dei grandi imprenditori tedeschi e austriaci all'ascesa di Adolf Hitler.

Nel breve saggio La guerra dei poveri (traduzione di Alberto Bracci Testasecca, edizioni e/o, pagg. 84, euro 9) Vuillard torna alla sua passione per la storia narrata, che l'ha già portato a occuparsi dei conquistadores, della Rivoluzione francese, dell'eredità coloniale europea, per immergersi dunque, con una prosa incisiva e febbrile dominata dal presente indicativo, nel mondo degli oppressi di un'epoca intrisa di un inedito fermento: «Si passava da un'eresia all'altra. Una sete di purezza percorreva i paesi, galvanizzava le folle». E, ancor di più, nell'intimo dei tormenti del predicatore itinerante che amava davvero, e non ne era solo affascinato intellettualmente, «l'uomo comune».

«Müntzer rifiuta le discussioni fra dotti teologi, l'esoterismo lo disgusta. Si appella all'opinione pubblica. Le tesi più profonde esigono di essere conosciute da tutti» scrive Vuillard. E ancora: «Se la prende soprattutto col latino, a cui oppone la semplicità del popolo, una semplicità che non è volgare, che può essere convertita. Il fango è oro. E mentre Lutero traduce la Bibbia in tedesco, Müntzer si rivolge nella loro lingua a quelli che non sanno leggere. Nella chiesa di Allstedt, Dio parla tedesco».

Nel racconto del peregrinare del sacerdote ribelle, il cui seguito tra i disperati aumentava tanto quanto l'isolamento degli altri teologi, spaventati dalla sua veemenza (arrivò a definire Lutero «la carne che vive nella mollezza a Wittenberg»), si delinea il progressivo scivolare nel furore, nella follia, nella violenza. «Müntzer celebra la messa in tedesco, e quando il conte di Mansfeld proibisce ai suoi sudditi di andare ad ascoltarlo cambia tono. Appare un altro Müntzer, arrabbiato. Alza il tiro, e se non inquadriamo bene questo scatto non possiamo capire niente del fanatismo», nota Vuillard.

In Francia, La guerra dei poveri è stato letto come un'allusione alle proteste dei gilet gialli, mentre l'autore stesso ha sottolineato il parallelismo con quell'ondata di rabbia, comunemente definita "populista", che dilaga in Europa, trasversale ai settori sociali e non più inquadrata da sindacati e partiti tradizionali.

Le dinamiche descritte nel libro, tuttavia, hanno qualcosa da dire anche su fenomeni epocali del nostro tempo: le masse esasperate dei migranti, le rivolte dei popoli arabi assetati di democrazia, catalizzate dai social media come un tempo dalla stampa di Gutenberg, ma anche l'umiliazione che nutre il fondamentalismo di matrice islamica. Sebbene spicchi una singolare differenza: se la rivolta capeggiata da Müntzer si nutriva della fame del popolo di comprendere finalmente la parola di Dio, questa rivendicazione non è ancora emersa nelle folle manipolate dai predicatori dell'estremismo che brandiscono un arabo intoccabile, incomprensibile a molti popoli musulmani.

Ciò che resta evidente è la pretesa, nel Cinquecento come purtroppo in ogni tempo, di giustificare la violenza in nome della presunta volontà di Dio. Quando il 15 maggio 1525 Müntzer si mise in viaggio per la battaglia finale contro l'aristocrazia e l'ingiustizia, a Frankenhausen, aveva con sé non più di trecento uomini, come un novello Gedeone. «Andava alla guerra come nella Bibbia, pregando, esultando e invocando il miracolo in un'atmosfera da fine del mondo». Sul fronte opposto, il langravio Filippo d'Assia che avrebbe spento la rivolta nel sangue (Müntzer finì orrendamente torturato e giustiziato), scriverà: «Con i nostri precipitammo l'azione e massacrammo tutti quelli che capitavano sottomano. Facemmo seduta stante irruzione in città, la conquistammo e uccidemmo tutti gli uomini che vi si trovavano, la saccheggiammo e in questo modo, con l'aiuto di Dio, ottenemmo quel giorno la vittoria e il trionfo di cui dobbiamo a buon diritto rendere conto all'Onnipotente». Attribuire al Padreterno un endorsement per la propria causa, dal pulpito o in un comizio, è sempre, a qualunque latitudine, un'operazione arbitraria ed estremamente pericolosa.