Vabbè questa è facile! Ci siamo viste dentro il Giardino dei Tarocchi!
In effetti non poteva che essere questo lo sfondo ideale per chiacchierare con Lorenza Pieri del nuovo romanzo, in cui il Giardino dei Tarocchi, alluso fin dal titolo, gioca un ruolo di primaria importanza nella crescita della protagonista e nell’esito della vicenda.
Lorenza Pieri è una scrittrice dalla voce incisiva e raffinata, che avevo già molto apprezzato nel romanzo precedente, “Isole minori” edito come il nuovo dalla casa editrice E/O (QUI la mia lettura). Confrontarmi con lei su “Il giardino dei mostri” con incursioni nella sua scrittura e nel suo immaginario creativo è per me motivo di gioia e soddisfazione.
I titoli di entrambi i tuoi romanzi: il precedente “Isole minori” e il nuovo “Il giardino dei mostri” racchiudono, a mio avviso, una delle chiavi interpretative per accedere alla bellezza e alla completezza della tua poetica narrativa. Con la chiara indicazione ai luoghi: isola nel primo romanzo, che è l’isola del Giglio, e giardino nel nuovo che identifica la struggente meraviglia del Giardino dei Tarocchi dell’artista franco-americana Niki de Saint Phalle, si evidenzia l’importanza che i luoghi hanno non solo nella struttura narrativa, ma nell’introspezione dei personaggi e nell’intera vicenda narrata. Non semplicemente luoghi narrativi ma in entrambi i casi personaggi essi stessi con una valenza simbolica ma anche fisica, geografica, metaforica fondanti.
Mi sembra molto importante una riflessione che tu fai nei ringraziamenti. Per evidenziare la tua gratitudine ai genitori, Franca e Italo, fai riferimento ai posti incredibili che hanno scelto da abitare aggiungendo: la nostalgia di un luogo è un punto perfetto da cui scrivere.
Sono i luoghi il punto iniziale di ispirazione per le storie che racconti? o invece sono punti di partenza ineliminabili per il tuo immaginario creativo?
Cara Giuditta, la prima parte della domanda racchiude già la risposta e quando le domande sono formulate così bene mi viene sempre voglia di rispondere solo “sì”.
Del resto le due opzioni formulate per la risposta mi sembra che possano valere entrambe senza escludersi a vicenda. In genere dico infatti che le mie storie nascono innanzitutto da una geografia, e ancora più nello specifico (visto che al momento per parlare della mia “poetica narrativa” ci sono solo due romanzi, ambientati in luoghi non distanti tra loro, in cui mi è capitato di aver vissuto) le mie storie nascono da luoghi in qualche modo “marginali” cioè luoghi apparentemente lontani dai centri di potere (dalle città dove si “fa” la Storia), un’isola minore, un paesino di campagna, lontano dai palazzi, dalla politica, dalle industrie, dai centri delle decisioni economiche – in cui però la Storia arriva, scombussolandone l’equilibrio, l’immobilità. Mi appassiona molto l’idea che la geografia sia fondamentale nella creazione delle storie dei personaggi (quelle con la s minuscola, per intenderci) ma nessuna geografia sia al riparo dalla Storia con la S maiuscola, per cui, i passaggi di epoca si esprimono forse con meno chiarezza ma più efficacia nelle pieghe che la Storia prende dentro geografie periferiche. In buona sostanza valgono entrambe le risposte: i luoghi sono per me fondamentali fonti di ispirazione (peraltro quelli che ho scelto sono luoghi bellissimi, che amo molto, pieni di luci e onde e alberi, o sculture magiche, paesaggi incredibili, fonti inesauribili di meraviglia), ma nel momento in cui sono toccati dalla Storia, dal passaggio umano, diventano oltre che fonti di ispirazione, anche punti di partenza (e ritorno) simbolici per l’ideazione dei personaggi e degli intrecci che li mettono in relazione tra loro.
Se in “Isole minori” comparivano come personaggi reali i temibili e mostruosi Freda e Ventura, in “Il giardino dei mostri” il personaggio reale che anima di mostri e di fantasia creativa le pagine del romanzo, dalla straordinaria biografia che tu intersechi con le vicende narrate in un equilibrio perfetto e fascinoso, è l’artista Niki de Saint Phalle, con il suo fantastico e unico Giardino dei Tarocchi, il luogo magico del romanzo.
Se la presenza di Freda e Ventura nel romanzo precedente era una necessità storica legata al luogo e al tempo in cui si svolgeva l’esistenza di Teresa, nel nuovo romanzo la presenza dell’artista sembra invece nascere da un’esigenza più profonda, quasi che fosse essa stessa il perno delle vicende narrate, come se la vita della protagonista Annamaria non potesse vivere la stessa parabola senza l’intersezione con il personaggio carismatico e unico di Niki.
È lei, strettamente legata al luogo che è riuscita a creare con il suo genio, il motore introspettivo che anima il racconto di “Il giardino dei mostri”? Se mi permetti di entrare nel tuo laboratorio di scrittura: che valore hanno i personaggi reali nella struttura romanzesca e nel tuo modo di raccontare?
Anche questa volta mi pare che tu abbia perfettamente colto nel segno. La presenza di Niki, un personaggio reale accanto al personaggio di finzione Annamaria è funzionale all’evoluzione di quest’ultima. La sua presenza e l’entrare in contatto con l’artista sono imprescindibili all’evolversi del personaggio. Mentre i “mostri” Freda e Ventura di “Isole minori” sono presenze “reali” in un contesto storico preciso, ma per il personaggio di Teresa funzionali solo a rendere concrete e visibili delle paure di bambina, nel “Giardino dei Mostri”, Niki e i suoi “mostri” hanno un ruolo molto più centrale, sono i protagonisti. Più volte è stato detto che “Il giardino dei mostri” può essere letto come un romanzo di formazione. Se vogliamo ridurre il romanzo a questo genere di sicuro il coming of age di Annamaria, il passaggio da un’età di insicurezze e costrizioni infantili verso l’età adulta, verso la consapevolezza di sé e delle possibilità di scelta che questa consapevolezza permette, avviene proprio grazie all’intervento di Niki, mentore, modello, anche cattivo esempio se vogliamo, ma “mostro” che insegna la libertà. Cosa che per una ragazzina come Annamaria, vissuta in un contesto in cui le mura del paesino sono anche metaforici limiti di un pensiero ristretto, non sarebbe potuta avvenire altrimenti: paradossalmente il Giardino invece di essere un luogo chiuso e separato dal resto del mondo diventa una spettacolare via di fuga. Non nascondo che abbia contato molto per me il fatto di avere vissuto negli anni della mia adolescenza molto vicina all’artista e pur avendo assistito alla realizzazione della sua opera non l’ho mai incontrata. È come se in un certo senso la finzione letteraria mi avesse permesso di colmare il rimpianto di un evento che non è mai successo. È molto bello sentire di avere in mano questo potere attraverso la scrittura e spesso i personaggi realmente esistiti nei miei racconti hanno questa doppia funzione, rendere il più reale possibile il contesto della finzione che racconto, ma anche intervenire nella creazione di fatti mai accaduti rendendoli del tutto verosimili. Dato che la verità è irraccontabile così com’è e la storia la lasciamo alle competenze degli storici, al romanziere non resta che provare a sintetizzare un pezzo di realtà, un momento storico, dei passaggi di potere simbolici attraverso delle vicende di finzione, che afferiscono a una verità letteraria, ma pur sempre una verità. Mentre scrivo capisco meglio il periodo di cui sto scrivendo, cerco di capire le mentalità di un tempo, di immedesimarmi nei diversi punti di vista possibili attraverso i miei personaggi. È una delle cose che mi piacciono di più del mio lavoro, capire un mondo, un momento, un passaggio storico creandone uno di finzione.
Non solo romanzo di formazione, anche se come già in “Isole minori” del cambiamento e della trasformazione, che è per me un dato saliente e fascinoso dei romanzi di formazione, tu sai essere acuta, profonda e incisiva interprete. Se “Isole minori” si prestava ad essere anche un romanzo storico tagliato in un’ottica intima e soggettiva con un passo che ricordava l’incedere letterario di Elsa Morante, “Il giardino dei mostri” si presta meglio ad una definizione, parziale come possono esserlo tutte quelle di genere, di romanzo sociale.
Non a caso in questo nuovo romanzo non è scontato considerare Annamaria come protagonista, perché tutti i personaggi, sia quelli della famiglia di Annamaria, il padre la madre il fratello, che quelli della famiglia antagonista, giocano un ruolo fondamentale e prepotente nella trama romanzesca. Forse sarebbe più corretto affermare che il protagonista è il rapporto tra le due famiglie, con le loro bellicose e sostanziali differenze: mondo borghese/mondo proletario; città/campagna; cultura/natura; centro/periferia? Un rapporto che con capacità di allargare orizzonti e di svelare accessi reconditi mostri di seguire nel lungo spazio della sua esistenza, nelle sue ramificazioni e contraddizioni, trasformazioni e capovolgimenti.
“Il giardino dei mostri” è il racconto di un insanabile e a volte insano conflitto di classe, inteso nelle sue accezioni più ampie e articolate? Un romanzo alla Zola per la carica di denuncia, che mi sembra sia intrinseca al tuo sguardo di scrittrice.
Ti ringrazio ancora per la domanda approfondita e acuta (e soprattutto per gli accostamenti ad autori accanto ai quali non mi sento all’altezza di stare); tra le varie definizioni che sono state date di questo romanzo forse quella di “romanzo sociale” è quella che sento più vicina alla mia intenzione, se appunto lo intendiamo come un romanzo sui conflitti di classe e sulle varie forme che il potere e i suoi passaggi di mano può assumere in generale. Non solo è ambientato in anni cruciali per la nostra storia contemporanea (quelli a cavallo tra gli 80 e i 90, in cui il comunismo, forse l’ideologia che è stata anche la più grande speranza del Novecento ha dimostrato tutta la sua fallacia) ma anche in un luogo, Capalbio, che nel tempo è diventato simbolico per la rappresentazione di un certo tipo di classe dominante di sinistra, detentrice di un potere che ai giorni d’oggi è l’incarnazione delle critiche populiste. Volevo raccontare (e l’ho fatto senza mai citare il paese e mai usare l’orrenda espressione “radical chic”) gli anni in cui quel piccolo posto della Maremma è stato il teatro di una vera e propria falsa metamorfosi Gattopardesca (infatti forse più che a Zola potrei avvicinarmi a Tomasi di Lampedusa), in cui il tentativo sperimentale che viene fatto dalle due famiglie (quella locale di contadino e quella altoborghese dei romani) di mescolare interessi e affetti come si trattasse di giocare alla pari su uno stesso terreno, finisce per fallire miseramente. Sauro è una specie di don Calogero Sedara a cui manca una figlia come Angelica, Filippo Sanfilippi è un Principe che rimane tale anche se millanta l’amicizia con persone di estrazione sociale molto diversa dalla sua ma che gli servono per rimanere dalla parte di chi ha il manico del coltello in mano. Più che attenzione ai “vinti” a me interessava raccontare le dinamiche di questi conflitti e i tentativi ipocriti di fingere che non avessero più senso le differenze di classe, che non esistessero più i “vinti”. Tutti i conflitti raccontati, e non solo quelli tra due classi contrapposte, quella borghese vs quella contadina, ma anche quelli tra generi, tra generazioni, tra amanti, tra amiche adolescenti portano in sé il bias del conflitto di classe, perché c’è sempre uno tra i due contendenti con più potere, più soldi, più informazioni dell’altro ed è su questa dinamica che si sviluppano le storie più interessanti da raccontare. Credo che tutti i più bei romanzi in circolazione non facciano in fondo che raccontare questo, le dinamiche di potere che pervadono le relazioni umane, i diversi gradi di consapevolezza di queste dinamiche e le possibilità più o meno riuscite di riscatto o sottrazione agli abusi. Ogni storia in fondo contiene una storia politica, anche se è una storia d’amore o una biografia (come quella di Niki) e a me questo aspetto interessa sempre molto.
p.s. Leggendo l’intervista a Silvia dai Pra’ (QUI il link) sono rimasta colpita da una constatazione divertente, in fondo entrambi i nostri romanzi, (usciti a breve distanza l’uno dall’altro, di due autrici che non hanno mai nascosto di essere di sinistra) raccontano delle storie che vogliono fare luce su due aspetti che sono diventati le domande-tormentone della destra – “e allora le foibe?”, “e allora i radical chic di Capalbio, scollati dai problemi del paese reale?”, cercando di non partire da un punto di vista di parte, anzi, evitando accuratamente di farlo, raccontando quello che è successo o è verosimile sia successo, in un passaggio cruciale della storia del nostro paese.
La tua scrittura, Lorenza, è in equilibrio perfetto tra i due secoli: ha lo spessore e la caratura del Novecento, nelle movenze stilistiche e nella compattezza della trama, e conserva la capacità di raccontare movenze dell’animo e paesaggi geografici ed emotivi della contemporaneità, centrandone nodi e snodi.
Romanzi che hanno piedi nel secolo passato e lo sguardo rivolto a scenari odierni alla ricerca di una visione d’insieme che racconti dove eravamo ma anche dove siamo arrivati.
Mi sembra che la tua scelta dei tempi narrativi in entrambi i romanzi sia suggerita da questa spinta a disegnare prospettive e visioni in cui ieri e oggi si saldano e si interpretano a vicenda, in un riverbero continuo e rifrangente.
Ti senti una scrittrice del Novecento o del nuovo Millennio?
Mi fa molto piacere che tu abbia colto questa prospettiva da narratrice “traghettatrice” tra due secoli. Mi sento una scrittrice del Novecento che però scrive dal Duemila, guardando indietro, alla ricerca dei passaggi invisibili da mettere a fuoco, incontri o eventi che nel momento in cui sono accaduti sono sembrati insignificanti, ma che hanno portato dei cambiamenti significativi a riguardarli a posteriori. Ho la sensazione che la nostalgia sia il mio punto preferito da cui guardare i panorami. Per questo credo che non riuscirò mai a scrivere un romanzo ambientato in un tempo in cui ci sono dentro gli smartphone. Mi sento ancora incapace di descriverlo. I cellulari hanno totalmente cambiato il modo di comunicare, la vita privata, la gestione della presenza e dell’assenza, il nostro essere sociali, in una modalità non solo difficile da descrivere, ma che mi sembra soprattutto noiosa da rappresentare. Sono una scrittrice da dialogo, da carteggio, da diario, più che da scambi di messaggini in chat e anche se nella vita ne faccio un uso smodato, non mi sento ancora pronta a scrivere una bella storia riproducendo tutte le cose che accadono su un cellulare, mentre il personaggio ha gli occhi fermi sullo schermo.
Lorenza, nel ringraziarti per la cura e la generosità di ogni singola risposta, concludiamo questa nostra chiacchierata.
Entrambi i tuoi romanzi si basano su una trama avvincente, un’introspezione accurata e in crescita dei personaggi, una cura raffinata e concreta della scrittura e un’attenta dimensione storica e sociale. Non sei solo una scrittrice ma anche una traduttrice: c’è sovrapposizione tra questi due ruoli o vivono in due mondi paralleli? Quale dei due influisce maggiormente sull’altro e quale dei due segna più nettamente il tuo immaginario letterario e detta gli eventuali modelli e riferimenti culturali?
La traduzione è un mondo a sé, ma possiamo dire che è stata una importantissima palestra per la mia scrittura. Prendendo a prestito una metafora più facile a volte mi è capitato di pensare che scrivere un romanzo è un po’ come costruire una casa e lo scrittore è sia architetto che muratore. Leggere è la preparazione, è come fare l’università, è studiare scienza delle costruzioni, storia dell’architettura, è imparare quali materiali ci sono a disposizione. Tradurre è il passo successivo, una volta assimilate le competenze, è come ristrutturare una casa già costruita. Bisogna comunque mantenere la struttura decisa in precedenza e adattarsi allo stile di qualcun altro. Scrivere è come partire da un terreno edificabile e avere la possibilità di tirare su da zero quello che si vuole, nella maggior parte dei casi senza neanche un committente che ti dice se ha bisogno di una pagoda o di un grattacielo. Davanti a una traduzione ho avuto a volte delle difficoltà interpretative, dei dubbi sulla resa più efficace ma non ho mai avuto un blocco, l’ansia della pagina bianca, nella scrittura tutto il tempo. Nella traduzione per forza di cose lavori con qualcosa che già esiste, la parte di creatività da usare è molto inferiore rispetto a un lavoro di scrittura originale, mentre è fondamentale la competenza linguistica sia della lingua di partenza che quella di arrivo. E non è detto che bravi scrittori siano anche bravi traduttori o viceversa. Scrivere e tradurre sono due attività molto diverse sul piano delle facoltà mentali ed immaginative che mettono in moto, anche se si basano sull’utilizzo dello stesso materiale che è la lingua. A me sembra di non fare neanche la stessa cosa (anche se in concreto non è altro che mettere parole una accanto all’altra sul computer) ad esempio tradurre mi dà una disciplina che non ho nello scrivere, mi piace tradurre di notte, tradurre di getto dieci pagine e poi prendermi il tempo per rivedere, quando scrivo un romanzo mio il processo è diverso, scrivo la mattina, perdo molto tempo per fare in modo di essere il più vicino possibile a un “buona la prima”.
Ma in tutta sincerità il mio immaginario letterario non ha niente a che fare con le mie traduzioni, quello è tutto pieno di vita, letture, esperienze, ricordi, ancora letture, studio, film, osservazione degli altri, tentativi di immedesimazione, memoria di dialoghi, persone e situazioni. Le traduzioni casomai mi hanno aiutato a raffinare lo stile, a lavorare bene sulle frasi, a cercare le parole giuste e puntare alla correttezza lessicale, ma non sono state “modelli” per l’immaginario o fonti dirette di ispirazione.
Per chiudere, non vivi più in Italia anche se mi pare che torni spesso, ci possiamo aspettare un tuo romanzo sull’ America o invece il tuo immaginario letterario è saldamente ancorato all’Italia?
Il mio immaginario letterario è pieno di àncore lontanissime tra loro, e sono io stessa impaziente di liberarlo non solo dall’Italia ma anche dalla Toscana. Non posso anticipare niente su quello che devo ancora iniziare a scrivere ma sì, è molto probabile che mi allontanerò parecchio dalle coste tirreniche la prossima volta.
E io non posso che rimanere in attesa di leggerti nuovamente.