Medea di Christa Wolf (E/O). Un aggiornamento del mito, alla ricerca di una via di uscita e della propria "misura eroica" contro i soprusi della società patriarcale.
Probabilmente un vero matriarcato inteso come dominio delle donne non è mai esistito, e comunque un ritorno a rapporti indifferenziati così antichi è impossibile. Possiamo solo tentare, osservando le esperienze di millenni, di andare avanti. Deve diventare sempre più normale che lo sguardo maschile e quello femminile diano insieme un quadro completo del mondo. (Christa Wolf, Medea)
Il mito di Medea è stato narrato con varianti rilevanti. Non esiste un canone definito cui riferirsi, salvo considerare tale – da un certo punto in poi – la tragedia di Euripide. Se qualcuno ha narrato per primo la storia, la tradizione orale ha aggiunto o tolto spesso qualcosa; se qualcuno l'ha messa per iscritto una volta, la successiva muta dalla precedente, e via così, per millenni.
Basti ricordare che Euripide la rappresenta nel 431 a.C., anno in cui scoppia nel Peloponneso la guerra (civile) tra Atene e Sparta. È un momento di crisi e di decadenza dove i nodi vengono al pettine, inclusa la questione degli stranieri ai quali – a parte l'ospitalità iniziale – mai viene riconosciuta la cittadinanza (nemmeno Aristotele in quanto meteco la ottenne).
Prima e dopo Euripide ogni epoca ha la sua Medea. Lo consente il karma multiforme del personaggio: molti gli aspetti di cui qualcuno in particolare, di volta in volta, affiora nelle singole versioni.
Christa Wolf parte dal racconto a noi noto: Medea proviene dalla lontana Colchide, è figlia di Re e somma sacerdotessa di Ecate.
Ha aiutato Giasone nella sua impresa, facendogli recuperare il vello d’oro affinché, tornato in patria, potesse riottenere il regno usurpato da Pelia, suo zio.
Donna di rango, non accetta di venire emarginata: Giasone non ottiene in patria (a Iolco, in Tessaglia) quanto desiderato, né ha le risorse per affrontare in armi chi l’ha spodestato.
La coppia, quindi, si rifugia nella Corinto di Creonte. Giasone, attratto nella cerchia del sovrano ospitante, ha mire politiche, altre preoccupazioni e meno cose da condividere con Medea: ha trovato una via d’uscita, e la sua compagna non vi ha contribuito.
Medea è una straniera, una profuga: «Allora udii per la prima volta la parola profughi. Per gli argonauti noi [Colchi, ndr] eravamo dei profughi, fu un colpo».
La Colchide, oltre i confini del mondo conosciuto, è lontana dalla civiltà (o luogo di una civiltà diversa). Pasolini nella sua trasposizione ne fa una terra arcaica, con usanze e riti religiosi quasi stregoneschi.
Medea, agli occhi dei Corinzi, appare una incantatrice, esperta di magia e di erbe. Fa paura e si preme per bandirla dal regno.
È una situazione diametralmente opposta a quella di Giasone, straniero, quando salpò in Colchide, e venne concessa l'accoglienza di rito ( ξενία – xenìa): «Non c'era bisogno di non trattare da ospiti come si conviene quei marinai che avevano attraccato nell'area del nostro fiume Fasi».
I problemi nascono dopo, sull’onda di un'irrealizzabile integrazione. Ostano (li chiameremmo così oggi) la ragion di stato e l’opinione pubblica, insieme a un'impronta patriarcale contro la quale Medea si ribella.
Dei Colchi si dice «sono diversi, vivono ammassati tutti nel loro quartiere». Il maggior torto è quello di «restare fedeli ai propri usi», lo «sposarsi tra di loro», quindi «essere diversi e ostinarsi nel dimostrarlo». L’alternativa però è impensabile: il tentativo di inserirsi nella vita di Corinto fornirebbe nuovi motivi di protesta e preoccupazione. Nulla di difforme, insomma, a quanto rilevato nella storia del popolo ebraico nel recente volume di Simon Schama.
Dopo essersi promessi qualsiasi cosa, Medea si vede messa da parte. La situazione è irrimediabile.
È possibile una riconciliazione, a condizione però di ricevere il basto molesto della sottomissione, per esempio il ritrovarsi alla tavola in mezzo ai servi.
A portarla alla disperazione è l'assenza di un luogo al quale tornare: non può ripresentarsi a suo padre, nella Colchide, la patria tradita per amore di Giasone.
Tutto è quindi cancellato, nemmeno i figli le appartengono, destinati a esserle sottratti, a divenire figli di re. Giasone, infatti, misconosce i diritti materni sulla prole, avanzando «pretese patrilineari». Se a Medea fosse permesso – dopo le nozze di Giasone con Glauce – di rimanere a Corinto, lo sarebbe quale concubina e non sua compagna – si veda in proposito Il mito di Medea, di Maurizio Bettini e Giuseppe Pucci (Einaudi, 2017).
Gli universi di Medea e Giasone sono inavvicinabili.
Di noi (i canti) hanno fatto ciò di cui avevano bisogno. Di te l'eroe, e di me la donna malvagia. Così ci hanno allontanati l'uno dall'altra.
Christa Wolf, Medea
L’affronto subito è tale da spingere Medea a reagire, a lottare, a scovare una via d’uscita. Questa l'origine sia della sua angoscia, che della sua personale “misura eroica”.
È così che la donna – nel cercare un'improbabile via d'uscita – diviene un personaggio scomodo e pericoloso. È il karma a essere diverso. Giasone e Medea sono delle pedine in mano agli eventi: se Giasone, però, sembra dipendere soltanto da questi, Medea dirige, macchina, medita, obbedisce al nome che porta (da “medomai”).
Non le riesce, tuttavia, di salvare i figli. Bandita, li lascia in custodia a chi deve proteggerli. La sorte è sconsiderata e muoiono comunque, lapidati dalla folla inferocita. Esposta a un simile oltraggio, non può difendersi dalla calunnia dei posteri che la ricordano artefice del misfatto. E pare sia, l'infanticidio, un'invenzione di Euripide per ingraziarsi il pubblico e scagionare i Corinzi stessi.
Due pesi e due misure distribuiscono torti e ragioni, meriti e demeriti, rettitudine e colpe.
Se Giasone è un eroe, nulla avrebbe compiuto se Medea non l’avesse tolto dagli impicci.
Nella sua rivisitazione, Christa Wolf presenta «una Medea innocente e senza colpe, vittima soltanto di un ordine sociale in cui prevalgono la brutalità e la ferocia dei maschi» (Medea, variazioni sul mito, di Maria Grazia Ciani). In parole povere, l’autrice tedesca rivede e corregge il mito sotto il profilo politico-femminista, non diversamente da Euripide rispetto le fonte precedenti.
Nel suo caso, Christa Wolf denuncia i soprusi della società patriarcale:
(Giasone) «Dobbiamo riprenderci le donne. Dobbiamo spezzare la loro resistenza. Solo così disseppelliremo ciò che la natura ci ha dato, la voglia che tutto travolge.»
Christa Wolf, Medea
Se Medea è colpevole, lo è anche Giasone nella misura in cui qualunque atto eroico è prodotto dell’inganno, dell’astuzia, dell'errore. Per entrambi, anzi per ciascuno, sopraggiunge il conto da pagare per le azioni compiute.
L’epilogo del mito – qualunque sia la versione – per ognuno è infelice. Il discrimine più che tra innocenza o colpevolezza, è nello spirito.
Nel bene e nel male Medea, se e per quanto compromessa, è integra; quale sacerdotessa è impregnata di una conoscenza metafisica che impaurisce e giustifica, permettendole di partecipare a una razionalità indecifrabile. È in grado, perciò, di emettere vaticini che sembrano sentenze, e sentenze che assomigliano a vaticini.
«Non proverai mai più molta gioia. Le cose si stanno mettendo in un modo che non solo quelli che sono costretti a subire un torto, ma anche quelli che il torto lo fanno saranno scontenti della loro vita. Del resto mi domando se il piacere di distruggere la vita degli altri non dipenda dal fatto che si ricava pochissimo piacere e pochissima gioia dalla propria.»
Christa Wolf, Medea
Vi è tra Medea e Giasone una distanza enorme. L’argonauta di un tempo è lontano dal cogliere la profondità di Medea, la complessità del suo essere, capace di raggiungere comunque, versione dopo versione, vette inaudite, al di là dell’umano.