Eros kài thànatos. Da Omero fino a Sigmund Freud e al di là di entrambi, una coppia perfetta: l'unica forse, spaventosa e affascinante, inevitabile e perfetta, ossimorica e coerente. Senza amore, e proprio inteso come eros, non può esserci vita, dall'istante del suo concepimento, vivendo comincia a morire. Ce l'ha insegnato Platone: la vita è una continua preparazione alla morte e se non s'impara a morire ogni istante, a prepararsi al Grande Salto, esso diventa amaro e spaventoso: se la ragione lo nega o lo fugge, esso si vendica perseguitandola nel sonno e nell'inconscio.
Una diffusa massima ai francesi attribuita definisce l'orgasmo come une pétit mort. Gli asceti cristiani insegnano che il perfetto metodo di affrontare alla fine di ogni giorno il sonno riparatore e ristoratore consiste nell'affrontare l'assopimento come fosse un quotidiano passaggio estremo. Un giornalista chiese un giorno a un grande torero come fosse possibile amare tanto i tori, come'egli stesso con forza e convinzione affermava, e al tempo stesso ucciderne almeno due alla settimana nell'arena. «Muoio anch'io col mio toro - rispose con le lacrime che gli vibravano nella voce -: ogni volta».
I due grandi archetipi concettuali ed esistenziali dell'orgasmo - quando si muore per donare nuova vita - e del sonno presiedono, se non alla concezione e alla scrittore dell'autore di questo grande romanzo, senza dubbio all'accoglienza e alla comprensione (nella misura nella quale gli sarà possibile) da parte del lettore occidentale che poco conosce dell'Islam e meno ancora della mistica sufi. Ma l'autore si è ispirato, per il suo titolo, a un detto di Muhyi-d-din Ibn'Arabi, il mistico andaluso vissuto a cavallo tra XII e XIII secolo e considerato uno dei padri del sufismo. Avversario di qualunque «divinità costruita sulla base del dogma», Ibn 'Arabi è reputato oggi il più grande teorico dell'amore come comprensione della rivelazione. È stato da una sua frase, «L'amore è una piccola morte», che il brillante romanziere e saggista arabo-saudita Mohammed Hasan Alwan, oggi quarantenne, ha desunto il titolo del suo romanzo omonimo, vincitore dell'International Prize for Arabic Fiction del 2017. Esso narra le vicende, gli amori, le passioni, l'esperienza mistica di Ibn 'Arabi dalla natìa al-Andalus alla Siria della terza crociata all'Egitto dei sultani discendenti del Saladino fino al solitario eremitaggio di una montagna dell'Afghanistan dove si spegne attendendo alla sua autobiografia. Quella che Alwan reimmagina e riscrive nelle pagine del suo romanzo.
Credo che tra le molte chiavi interpretative che meglio possono introdurre a questa lettura vi sia un concetto: quello di Barzakh, parola che serra il concetto dello stato intermedio tra il mondo fisico e quello spirituale. «Dio mi ha dato due Barzackh: uno prima che nascessi e l'altro dopo la morte. Nel primo ho visto mia madre che mi dava alla luce, nel secondo mio figlio che mi seppelliva». In questa frase c'imbattiamo all'inizio di un racconto complesso, dalla rigorosa struttura incentrata su alcuni «Io narranti» (il mistico stesso, una studiosa di Ibn 'Arabi laureata alla Sorbonne, un giovane che forse somiglia all'autore; e, naturalmente, qualche manoscritto «perduto e ritrovato»: escamotage che, confessiamolo, c'era da aspettarsi). E ritroviamo, nell'indagine sulla genesi di un'esperienza mistica vissuta da un musulmano del secolo XII-XIII, immagini, sensazioni e concetti analoghi e affini rispetto alla nostra grande mistica, da Bernardo di Clairvaux a Giovanni della Croce e a Teresa d'Avila. Analogie e affinità strettissime e nondimeno ardue ad intendersi e rischiose a valutarsi. Ma Alwan, nato a Riad e specializzato della canadese Carleton University, è padrone di entrambe le sponde del pensiero, quella occidentale di radice cristiana e di frutti agnostici e quella musulmana che peraltro con la Modernità ha ormai molto a che fare. E, caritatevolmente, ci correda di un Glossario di termini tecnici arabi che il lettore farà bene a consultare prima, durante e al termine della sua lettura.