Il titolo originale è Terre ceinte – “terra cintata” –, che, per un voluto caso di omofonia possibile in francese, si può intendere anche come sainte: “santa”. La terra santa/soffocata in questione si trova nel Nord di un Paese africano immaginario (l’autore non fa mistero di aver pensato al Mali) ed è stata occupata dalla Fratellanza, un gruppo jihadista che ricorda Daesh (anche se lo Stato Islamico non era ancora nato quando la scrittura del romanzo doveva essere pressoché conclusa). Vi è stato instaurato un regime del terrore: la prima scena è l’esecuzione di una «coppia adultera» – due giovani non ancora ventenni – sulla piazza di Kalep, davanti a una folla che appare indifferente se non consenziente.
Il libro però non si attarda più del necessario sulle crudeltà, anche se queste non possono certo mancare né c’è happy end che venga a riscattarle. Le parole chiave sono piuttosto: resistenza; linguaggio; verità; sapere. E popolo: nozione così reale ma così difficile da definire. «Un’entità superiore, quasi mitica»? Oppure «non conviene parlare del popolo, perché non è un’entità unica, meglio parlare degli uomini, di ogni singolo uomo»?
Gli «eventi» a Kalep spaccano le famiglie, ma innescano anche insperate solidarietà. C’è chi non si rassegna. Un gruppo di cinque uomini e due donne, tra cui un medico e un giovanissimo infermiere, un professore universitario e una libraia, concepiscono l’idea di pubblicare un giornale clandestino (in realtà un blocchetto di fogli A4, di cui arriverà a essere stampata una sola edizione) per far circolare un pensiero diverso tra la gente pur senza contestare la religione islamica in quanto tale. Per risvegliare nel popolo, appunto – che almeno in un’occasione aveva dato prova di sapersi opporre alle soperchierie –, il senso della libertà e della dignità perduta.
Come il giornale esce alla luce del sole, la repressione raddoppia di intensità: un esito inatteso (neppure troppo) dai redattori, che s’interrogano drammaticamente sulle proprie responsabilità. Dilemmi che evocano quelli di ogni resistenza, quando le azioni dei militanti espongono l’insieme della popolazione civile a ritorsioni e rappresaglie (e Mohamed Mbougar rivela di avere passato in rassegna, tra le sue numerose letture, comprendenti Orwell, anche numerosi testi riguardanti la Seconda guerra mondiale).
Non aggiungeremo altro a proposito di questo romanzo magnetico, se non il ruolo chiave che ricoprono diverse donne (tra cui la corrispondenza epistolare tra le madri dei due ragazzi uccisi nelle primissime pagine), e l’ambientazione in un’Africa in cui i libri, la lettura e lo scrivere assurgono al ruolo di coprotagonisti.
L’autore, infine: mentre scriveva quest’opera – pubblicata dalla storica editrice Présence Africaine e grazie alla quale ha vinto a Ginevra, nel 2015, il prestigioso Premio Ahmadou Kourouma – non aveva ancora compiuto 25 anni. Alla stregua di molti altri nomi che hanno fatto la storia della letteratura africana (pensiamo al suo conterraneo senegalese Cheikh Hamadou Kane con il suo L’ambigua avventura), Mbougar è un talento precoce. A oggi ha già pubblicato, oltre a Terra violata, una novella e altri due romanzi, di cui uno, il corposo Silence du choeur, è ambientato in Sicilia nel mondo dei migranti africani.