Il dramma “perfetto”, secondo Aristotele o più propriamente gli umanisti del ’500, prevede unità di tempo, spazio e azione, ovvero deve svolgersi nell’arco di una giornata, in un luogo circoscritto (talvolta nemmeno “presente”, ma soltanto evocato dalle parole di chi racconta la vicenda già accaduta) e attorno a un’unica trama, senza sviluppi secondari.
E Antoine, protagonista di Perdersi è il meglio che possa accadere, si trova proiettato in una tragicommedia, pur con qualche licenza poetica: una sola, semplice variazione nel suo modus vivendi di “script doctor”, tutto tagli (di sceneggiature) e tennis, lo getta su un palcoscenico in cui le ore si accavallano, si sovrappongono, si annullano, le distanze si accorciano e i gesti convergono verso un unico punto, la sua vita in evoluzione.
A ben vedere, il tema della recitazione ritorna e permea ogni scena del romanzo, sia letteralmente – incontriamo attori, registi, produttori, ciascuno con le proprie idiosincrasie e qualche scheletro nel backstage – sia in modo più sottile e metaforico: cosa è vero e cosa è finto, dove finisce il copione e inizia la libera improvvisazione? Il nostro Antoine si è ritagliato un ruolo “appropriato”: protagonista di una trama senza impegni e con tanta ricreazione, porta avanti – pur restando immobile – una relazione comoda, svolge il suo lavoro con metodo e velocità e non chiede altro, non va oltre.
Finché il teatro – quello vero, fatto di sangue e fierezza, di assi pericolanti e luci che traballano – irrompe e lo travolge rimettendo ogni certezza in discussione… per colpa (o per fortuna, o magari per destino?) di quella singola scelta divergente.
Antoine-Emone, combattuto tra ragione e sentimento, tra passato rimosso e futuro impensato, e per questo fermo, è coinvolto dalla giovane Emma-Antigone, fiera, indomita e libera, in un viaggio senza pause e con tanti imprevisti, più simili a segni della sorte, a frammenti inevitabili di un nuovo mondo da comporre (e mi chiedo se i nomi dei due eroi contemporanei non siano stati scelti di proposito, per fare il pareggio con i due antichi tebani). Allora può succedere che i ruoli si invertano, che lui prenda coscienza, si rivolti e combatta e lei respiri, resti in attesa, fino all’epilogo… che naturalmente non rivelerò! Per godersi appieno tutta la catarsi del dramma, occorre viverlo di persona… da spettatore oppure da lettore.
Alain Gillot scrive un romanzo che si vede come un film a colori e ad alta definizione e che si sente come uno spettacolo interattivo, una storia che profuma di Costa Azzurra e di terre di confine, di pellicole e di spuntini improvvisati, un libro che dimostra ancora una volta che la vita, quando bussa, non può essere ignorata, nemmeno se ci si chiude in una fortezza. Del resto, le porte di Tebe sono sette, impossibile presidiarle tutte: qualcuno, prima o poi, riesce a entrare.