Verso la fine degli anni Settanta, nell’entroterra di Capalbio comparve una donna affascinante e dalla storia travagliata, l’artista franco-americana Niki de Saint Phalle che, sull’esempio del Parco Güell di Gaudí a Barcellona, volle creare un suo Giardino dei Tarocchi dove installò grandi sculture fatte di cemento, specchi, ceramiche, ispirate appunto agli arcani maggiori dei tarocchi. Morta nel 2002, la sua opera a cielo aperto in Maremma è ancora oggi meta di migliaia di visitatori.
Sul perno di questo luogo reale e di questa non così nota biografia d’artista, Lorenza Pieri immagina la storia del suo nuovo romanzo, Il giardino dei mostri (Edizioni e/o), ambientandolo negli stessi luoghi ma dieci anni dopo, sul finale degli anni Ottanta. Niki in realtà è una figura di sfondo (uno specchio anche lei?) rispetto ai veri protagonisti della storia, la famiglia Biagini, una tipica famiglia di ex contadini e butteri che sulla terra dove gli avi avevano sputato il sangue costruiscono una piccola fortuna turistica. Sono gli anni in cui Capalbio, (peraltro mai nominata esplicitamente nel romanzo) si consacra come luogo di villeggiatura di una certa gauche caviar, quasi una “piccola Atene”. Così ai Biagini si affianca un socio romano, Filippo Sanfilippi, deputato di un partito di sinistra, la cui vicenda familiare si intreccia con quella dei toscani: il capofamiglia Sauro e la moglie Miriam, e soprattutto i gli Saverio e Annamaria, la vera protagonista del libro.
Lorenza Pieri si conferma bravissima narratrice dell’adolescenza. Ma rispetto a Isole minori, il suo esordio del 2016 (romanzo di formazione di due sorelle cresciute sull’isola del Giglio), stavolta l’approccio è più corale. C’è sempre la stagione degli affanni, dei primi dolori adolescenziali, e c’è ancora il ritratto vivido, esatto, di una famiglia disfunzionale nonostante le apparenze “normali”. Ed è costitutivo il confronto che nasce tra Annamaria, il brutto anatroccolo, e l’artista misteriosa, l’altro “mostro” che le insegnerà a non aver paura di sé stessa.
Ma c’è di più: c’è un vasto ritratto d’ambiente in un’epoca di trasformazione che è metafora del Paese ormai “gentrificato” nella sua totalità; c’è il germe della crisi di una visione politica di sinistra che perde il contatto con la realtà e oggi se ne vedono i mesti risultati; c’è soprattutto il suono di una scrittura molto solida, molto felice nell’architettare una bella saga familiare senza però stucchevoli respiri epici, ma anzi con un basso continuo di sardonica umanità.