Una trama ininterrotta
C’è un filo diretto che lega il romanzo italiano del Settecento ed Elena Ferrante.
La connessione può sembrare ardita, poco rigorosa; cercherò di chiarirla in poche righe, mescolando pericolosamente critica più paludata e critica militante.
Gli studi hanno mostrato negli ultimi trent’anni circa che il romanzo moderno italiano ha cominciato a crearsi già a metà Settecento, allineando numerosi esempi che hanno costituito il pregresso con il quale Foscolo e Manzoni si sono dovuti necessariamente confrontare[1]. Di tale passato la tradizione poco ha traghettato fino a noi, e per lo più solo quanto era uscito dalle penne di intellettuali “alti”, anche se meno letti. Sono rimasti, cioè, nelle antologie e nel canone, i romanzi scritti da Alessandro Verri o Ippolito Pindemonte – Le avventure di Saffo, Le notti romane, Abaritte. Storia verissima – seppure poco frequentati e decisamente slegati da ogni realtà contingente. I romanzi, invece, che narravano le storie personali di donne e uomini comuni e contemporanei – letti, passati di mano in mano, stampati in gran copia, ristampati, pubblicati in edizioni particolari per le ferie delle classi agiate[2] –, ebbene, questi subirono la stessa rimozione che era stata auspicata dagli intellettuali “alti” contemporanei alla loro pubblicazione. Questi romanzi, cioè, furono accusati di essere inverosimili – quando invece parlavano di donne che si muovevano nelle città del tempo, nei caffè del tempo, magari sfuggendo ai conventi, innamorandosi dietro le quinte dei teatri, fuggendo dalle camere chiuse dai padri, incrociando figure contemporanee per costumi e modi; mentre romanzi che davvero erano inverosimili, poiché parlavano di Saffo o di personaggi dell’antichità romana, sopravvissero all’oblio, e vennero annoverati in un canone durevolmente citabile.
Termini di confronto
Prima di Foscolo, prima di Manzoni in Italia non c’era dunque il vuoto né il solo imperare dei romanzi stranieri tradotti: tra le mani dei benestanti sostavano per ore le pagine romanzesche di autori italiani come Pietro Chiari, Antonio Piazza, Zaccaria Seriman, Francesco Gritti, Antonio Bianchi.
Perché dunque, pur letti, stampati, prestati da una mano all’altra e sopravvissuti nel secolo successivo, con ulteriori edizioni, ristampe e traduzioni estere[3], questi romanzi popolari non sono rimasti nella memoria storico-letteraria nazionale?
Per molto tempo è rimasta verso questi testi valida l’accusa di inverosimiglianza – facile a smontarsi, oggi che i confronti con le caratteristiche del genere rendono più chiara, definita e allineata con i canoni europei la loro identità. Un’altra accusa era quella di essere stati scritti in una lingua scorretta: ma l’analisi e la loro lettura ha mostrato quanto questo non corrisponda a realtà[4]. Si parla quindi e cioè, in questo caso, per gli albori del romanzo, per il romanzo che è stato il termine “dopo il quale” Manzoni e Foscolo – per citarli grossolanamente come esempio dell’inizio del nostro romanzo – hanno scritto, di un vero pregiudizio che non ha permesso di vedere e di avere contatto con le radici con le quali si raffrontavano le opere dei maggiori romanzieri, quasi nell’illusione che il loro unico termine di confronto fosse solo il romanzo straniero. Foscolo e Manzoni, invece, non si misuravano solo con l’estero: ma anche con tutti i divieti che, sul romanzo, erano stati prodotti (e introiettati) nella seconda metà del Settecento dal sistema culturale italiano.
Romanzo e coscienza
Se la critica e la tradizione hanno consegnato alla storiografia e dunque alla coscienza italiana la sola esistenza e memoria dei romanzieri settecenteschi, pre-manzoniani, che nelle proprie narrazioni parlavano “a pochi”, e raccontavano vicende estranee alla vita reale, la causa risiede, così paiono dire gli studi fino ad oggi, essenzialmente in due grandi ordini di motivi:
la censura da parte della Chiesa, che dissuadeva dalla lettura di tali testi, nel timore, di matrice classica, che tali storie, lette privatamente[5], influenzassero l’animo delle lettrici, poiché trattavano di storie di emancipazione e libertà femminile, amori, avventure irregolari e non consone ai princìpi cattolici[6]. Chiaro che i romanzi che allontanavano l’identificazione del lettore, come Le avventure di Saffo o le Notti romane, fossero accettabili da quel canone. Era consentito e giusto, pertanto, che quei romanzi, depurati dalle emozioni pericolose, si concentrassero su una perfetta, impeccabile, inappuntabile perfezione formale e stilistica;
il giudizio degli intellettuali, che si coalizzarono contro tali romanzi fin dal loro apparire.
Il loro giudizio (con quello della Chiesa) ha avuto esiti determinanti in due direzioni. Nell’immediato, in quanto il sistema culturale non aveva anticorpi adatti a rispondere ai divieti in modo oppositivo: e il risultato fu quello di riuscire, in effetti, a mettere a tacere tutte le voci romanzesche che avevano provato ad inventarsi narrazioni che dessero alle lettrici e ai lettori emozioni forti, basate su realtà condivise; nella lunga durata, poi, l’esito ha toccato la ricostruzione storico-letteraria dei pregressi del nostro romanzo almeno fino al secolo scorso, quando, a partire dagli anni Ottanta circa, la critica si è accorta di questa sorta di “sparizione”. Così come gli intellettuali a fine Settecento avevano reagito a tali romanzi “assai letti ma molto criticati” scrivendone altri del tutto astratti e depurati da sentimenti ed emozioni da più parti giudicati sconvenienti, allo stesso modo la critica e gli intellettuali posteriori operarono a partire dall’Ottocento una rimozione di questi primi gesti romanzeschi poco controllati, pericolosamente popolari e, come ricordato, già scomodi per la Chiesa.
L’Italia, insomma, a partire dal Settecento si è dotata, nei confronti della narrativa di propria produzione, di un mirabile pregiudizio, che ha previsto il (solo) magistero dell’intellettuale “alto” nella narrativa lunga e il prevalere della cifra della cura della forma sul contenuto – un contenuto che fosse, comunque, emotivamente non pericoloso.
Storie di canone
Questo pattern non si è limitato ad essere una dimenticata fase storico-letteraria. Questo modello ha determinato, a mio parere, la storia delle narrazioni scelte dal nostro canone: narrazioni che dovevano essere ben accette agli intellettuali alti anzitutto (e alla Chiesa, almeno fino ai primi del Novecento: ricordiamo per esempio la vicenda del Santo di Antonio Fogazzaro[7]), sacrificando a tal fine anche (o forse elettivamente) il rapporto con il lettore. Le narrazioni, pur di qualità, plausibili, significative per i lettori e che magari riuscivano a raccontare o ad esprimere il carattere nazionale, se non ben accette agli intellettuali “alti”, non potevano essere – e di fatto non furono – inserite in un canone.
Dopo questa partenza settecentesca, il modello ha continuato ad agire negli anni cruciali per la formazione dell’Unità nazionale. Nella seconda metà dell’Ottocento, gli autori con una lingua controllata ma la cui forma non sopravanzasse, in importanza, il ruolo del contenuto, autori apprezzati e letti dagli intellettuali ma anche estremamente “popolari”, per le loro tonalità emotive, e con altissime tirature – come Francesco Domenico Guerrazzi, per citarne uno – scomparvero da qualsiasi canone – oggi non li troviamo raccontati nelle storie letterarie, sono sconosciuti: quando hanno invece per decenni letteralmente non solo riempito il mercato di sé e delle proprie edizioni pirata, data la richiesta[8], ma anche costruito sia il sentire nazionale popolare che la coscienza degli intellettuali militanti risorgimentali[9]. Nel caso di Guerrazzi, per esempio, l’opera di detrazione iniziò proprio con l’Unità d’Italia, quando il consenso generale tra istituzioni in gioco (e anche la Chiesa, dunque) e la necessità di temperare i toni in senso anti-emotivo divennero il criterio di scelta del canone letterario, che investiva compattamente, come nel secolo precedente, anche la narrativa.
Sembrerebbe quasi che, in una storia delle emozioni nella letteratura italiana ancora tutta da scrivere, al romanzo debba competere un singolare controllo delle emozioni. È questa, senza dubbio, la linea di Manzoni[10]; e scriveva Croce sulla «Critica» qualche decennio più tardi: «Certo, se il risorgimento italiano non avesse avuta altra espressione artistica che i romanzi del Guerrazzi, non sarebbe stato risorgimento di cosa alcuna: né d’intelletto, né di cuori, e neppure di attività pratica, la quale richiede luce interiore e passioni frenate, e dose di senno assai maggiore di quel che non risplenda nell’ideale del Guerrazzi»[11].
Si è creata in due secoli, dunque, in Italia, una discrasia tra popolarità/successo romanzesco e approvazione della critica alta, che ha avuto solo alcune numerabili eccezioni – il caso di Umberto Eco il cui Nome della rosa era preceduto dalla fama “alta” dell’autore; ma, nel dopoguerra stesso, romanzieri come Cassola o Bassani dovettero subire una simile disapprovazione, per eccessiva “facilità”, che si incarnò poi storicamente nella risposta del Gruppo 63. La risposta concreta degli intellettuali fu, con il Gruppo 63, una narrativa franta, giocosa, metaromanzesca: illeggibile, di fatto, per il popolo tanto quanto sacra per l’elaborata visione letteraria degli intellettuali – i «nipotini dell’ingegnere», ben protetti dal genio dello zio, finivano con lo sposare, ancora, ed elettivamente, contrastivamente, una narrativa lontana dal lettore.
Di fatto, dunque, chi, non intellettuale, scrivesse romanzi di qualità che arrivassero a toccare le coscienze dei lettori, di tanti o tantissimi e non solo “di pochi”, si trovava nella condizione di dover difendere il proprio scritto dal discredito intellettuale o dell’Accademia. Se, poi – e non si tratta di osservazione di genere, ma di semplice cronaca –, a scrivere qualcosa che arrivasse a tanti lettori era non solo un intellettuale non riconosciuto o un non intellettuale ma solo “scrittore”, ma anche una donna, ecco che la quantità di fattori-ostacolo, di quei fattori-ostacolo storicamente acquisiti in modo quasi indipendente dal singolo, acquisiti come sistema, si facevano, per passare il varco della critica “alta”, davvero insormontabili.
Il nostro problema con la narrativa
Questa, pur non norma, è tuttavia indubbiamente una costante del nostro secolare problema con la narrativa. Una costante, superfluo ricordarlo, per nulla inevitabile: si guardi alla provenienza degli autori e alla tipologia delle storie che diventano parte della storia del romanzo nazionale nel caso dell’Inghilterra, della Francia, della Germania.
Il giudizio degli intellettuali e della critica accademica sulla letteratura che, solo per essere popolare, è stata relegata nella livellante categoria del “di consumo” ha creato una sempre maggiore forbice tra le opere lette e approvate dagli intellettuali e le opere che parlano al pubblico dei lettori – come se il fattore “pubblico” automaticamente squalificasse la qualità del testo.
Si tratta di un pregiudizio endemico nella cultura italiana e che non è innocuo: ha uno strettissimo legame con la capacità del popolo italiano di “sentire” se stesso – di poter sentire se stesso, guardarsi nelle narrazioni così come è davvero, e non come dovrebbe essere; si tratta anche, per una nazione, di avere la possibilità di ripercorrere la propria identità nelle narrazioni. Se la storia dei nostri romanzi comprende soprattutto esperimenti intellettuali, lontani dall’emotività e dall’esperienza cogente e coinvolgente della realtà (come, a mio parere, è il capolavoro dei Promessi sposi), la storia dell’Italia non si rispecchia nella sua narrativa: si racconta una storia narrativa adattata alle aspettative di istanze superiori, lontane dal popolo e dalla vita vera della nazione[12]. Il risultato è una massa di lettori che legge romanzi di cui la critica non parla o non vuole parlare; un canone che non è quello reale; lettori che leggono stupendosi di non trovare emozioni che li rappresentano; ovvero “abbiamo un problema con la nostra linea narrativa”.
Il caso Ferrante
Quando si vedono i libri di Ferrante, e in particolare la tetralogia, così studiati all’estero – mentre in Italia stentano ad entrare nelle aule accademiche, e un accademico che ne parli criticamente è, qui, guardato con leggera, benché dissimulata, diffidenza; quando li si vedono essere presenti nelle aule universitarie e seminariali esterne ai confini, quando li si vede viaggiare ovunque, dagli States al Giappone, lodati all’estero da intellettuali e artisti, da lettori particolari tra i lettori comuni, i casi sono due: o dobbiamo dubitare della passione narrativa che abita il resto del mondo o l’Italia ha grande difficoltà o resistenza, per i motivi sopra citati, a comprendere il richiamo di quei romanzi che, ben scritti, assai letti e apprezzati riescono a raccontare ovunque e agli italiani stessi pezzi di vita, di vita spirituale, storica, intellettuale, emotiva dell’Italia e dei suoi abitanti.
Gli interventi italiani che hanno iniziato a inoltrarsi timidamente nel merito della scrittura di Ferrante sono stati di donne; e sono state giovani o nuove accademiche (un caso?) ad occuparsene: Daniela Brogi su «Alias» nel 2013, quando la vicenda di Elena e Lila è ancora trilogia, scrive Sé come un’altra, che subito mette in guardia dal confinare la scrittura di Ferrante nella scrittura di genere:
[…] ma facciamo attenzione, perché attraverso le parole passano anche le forme del dominio, e così invocare il “sentire femminile” equivale pure, visto che non si contempla l’uso dell’espressione “sentire maschile”, a sottrarre importanza, a fare torto a una scrittura “molesta”, che scava fuori dagli schemi lagnosi e sentimentali – e pure per questo sarebbe più comodo recintare nella letteratura di genere[13].
Laura Benedetti ne parla ancor prima: ma dagli USA, dalla Georgetown University di Washington, cioè da un ambiente accademico differente; e ne scrive nel 2012, ponendo in dialogo L’amica geniale con la precedente opera di Elena Ferrante[14]. Quattro anni dopo, a quadrilogia conclusa, il suo bilancio su «Allegoria» dal titolo Elena Ferrante in America[15], mentre ricorda che l’American Comparative Literature Association ha dedicato nel suo convegno annuale del 2016 tre sessioni all’opera di Ferrante[16], non può non rilevare che:
Tanto fervore oltreoceanico non ha mancato di suscitare qualche perplessità nei critici italiani. È proprio a partire dal successo americano, infatti, che hanno trovato espressione le maggiori riserve verso la tetralogia, come evidenziato da alcuni giudizi raccolti da Luca Ricci e apparsi sul «Messaggero»: con l’eccezione di Giovanni Tesio, che riconosce all’opera «rispettabilissimi livelli di dignità narrativa», gli scrittori interpellati parlano di «cascata di aggettivi scontati e accostamenti prevedibilissimi» (Francesco Longo), «narcisismo letterario» (Filippo La Porta), «libro epigonale, retrò» (Massimo Onofri), «feuilleton stilisticamente molto esile» (Paolo Di Paolo)[17].
Una voce isolata deve specificare che nonostante il successo la tetralogia di Elena Ferrante ha «rispettabilissimi livelli di dignità narrativa». Una narrazione di tale indubbia e dimostratissima potenza riesce a divenire un «feuilleton stilisticamente molto esile»[18]. Interessante il gancio stilistico – rispetto al discorso sullo stile cui abbiamo prima fatto cenno come essenziale per l’intellettuale italiano fin dal Settecento, nel mezzo della sfida con il romanzo europeo – e interessante la spia del feuilleton, che riconduce lo sguardo critico nell’alveo del peccato originario, sette-ottocentesco: non prevale la cura formale, ci sono emozioni, allora non è altro che un feuilleton[19]. Lo stesso Di Paolo avrebbe poi detto Ferrante, nel marzo 2015, una sorta di «marca di scarpe o di dentifricio»[20], il suo successo di pubblico e critica negli States grande «perché le trame sono oliate, la mano narrativa è solida, la lingua piana, e Napoli, quando c’è, è un fondale che non impegna troppo, sta lì come una stampa turistica con Vesuvio e golfo. Si fa leggere con partecipazione emotiva, le sue vicende sono traghettabili ovunque» [21]. Francesco Longo osserva, a margine del suo commento che si apre, secondo l’articolista, con «Ferrante è una narratrice potente, ma non una scrittrice»: «E la letteratura, si sa, è solo questione di stile». Non esiste, dunque, un filo rosso che lega questi giudizi agli intellettuali settecenteschi come Alessandro Verri, che, mentre in Europa imperava il nuovo romanzo, il romanzo che descriveva le possibilità del nuovo individuo nel mondo, proponeva uno stilisticamente limatissimo e gelato Le avventure di Saffo (ricordiamo: tra i pochi romanzi rimasti nel canone descritto e costruito dalla critica italiana nei duecento anni successivi)?
Non la forza dei personaggi, quello che essi rappresentano, le possibilità dell’esistenza che incarnano, le relazioni che sanno descrivere, l’incrocio di tutto questo con la storia nazionale vista dal di dentro, dalle case, dai rapporti, dalle convenzioni, dal linguaggio e dal dialetto, dalle viscere delle donne e degli uomini dell’Italia dagli anni Sessanta agli anni Ottanta, da Sud a Nord, no: piuttosto, lo stile – come se la rappresentazione dell’individuo e della sua problematica esistenza, dei quali il romanzo è privilegiato commentatore da almeno due secoli, dovesse confrontarsi elettivamente con una questione di stile, prioritaria rispetto alla forza della narrazione e della rappresentazione del quotidiano.
Opportunamente osservava Laura Benedetti:
La veemenza di certi pronunciamenti non può che richiamare alla memoria la polemica suscitata una quarantina d’anni fa da una figura fondamentale nell’ispirazione di Elena Ferrante, Elsa Morante. Anche nel caso de La storia, a uno straordinario successo di pubblico aveva fatto seguito un risentito sbarramento critico, a cominciare dalla lettera collettiva, pubblicata sul «Manifesto» del 18 luglio 1974, che condannava senza mezzi termini il «romanzone» e «la mediocre scrittrice» che l’aveva prodotto. La diatriba sarebbe andata avanti per anni con toni accesi: ancora nel 1996, Paolo Di Stefano poteva raccogliere per «Il Corriere della Sera» pareri contrastanti di critici e scrittori, da Alfonso Berardinelli, che lodava «una capacità inventiva che non ha pari in Italia, un fenomeno esplosivo e straordinario», a Franco Cordelli, che al contrario riscontrava nello stile dell’autrice «una baroccheria ornata e piana di stucchi, quindi stucchevole, [che] non trasmette il senso profondo di un’esperienza, ma il fracasso di un’anima». Si trattava però ormai degli ultimi fuochi d’artificio, mentre Elsa Morante si avviava a diventare una protagonista indiscutibile del Novecento italiano, punto di riferimento per generazioni di scrittori[22].
L’aspetto percorso con più sistematicità in Italia ha iniziato ad essere anzitutto extratestuale – quello dell’identità dell’autrice, indagata con una determinazione pervicace, giunta fino all’indagine su beni, denari e compravendite dell’ipotetica Elena Ferrante[23]. L’Università di Padova ha organizzato, nel 2017, un workshop dedicato all’indagine stilistica dei testi dell’autrice della quadrilogia – un modo per indagare l’opera con il pretesto di identificarne l’autrice e che ha prodotto un libro dal titolo Drawing Elena Ferrante’s Profile[24]. Sono nate indagini sulla dimensione dialettale dei testi di Ferrante, partiti dall’Amore molesto; e nel 2018 Tiziana de Rogatis, dopo un primo affondo del 2015 nella costruzione dell’immaginario femminile e napoletano[25], ha pubblicato, non a caso presso e/o, Elena Ferrante. Parole chiave, dove la quadrilogia e le sue caratteristiche sono ripercorse in una sorta di racconto quasi «ferrantiano»[26].
Tra le poche voci maschili che abbiano riflettuto sulla dipendenza narrativa attribuita alla tetralogia senza sminuirla, quella di Massimo Fusillo: «Basta poco, secondo me, per capire che questa dipendenza non è solo l’effetto di una strategia efficace, come in tanta letteratura e in tanto cinema di consumo (e in ogni caso si tratta di un effetto non facile da raggiungere, certamente significativo): è invece parte di un sistema più complesso, che ha a che fare con la grande se non con la grandissima letteratura»[27].
Tiziana de Rogatis nel 2016 aveva aperto la serie di interventi su «Allegoria», cui quello di Fusillo appartiene, chiedendosi appunto: «Per quale ragione i suoi libri vengono pressoché ignorati dal dibattito universitario italiano, mentre in Nord America sono al centro di convegni, seminari, pubblicazioni autorevoli?»[28].
E il pubblico italiano?
Ma il punto non sembra essere solo quello del dibattito universitario o del confronto con il pubblico americano. Il confronto e la partita sono anche con il pubblico italiano. E il punto cruciale è, nel suo complesso, quello di una critica che sminuisce – che torna a sminuire, come nel Settecento – la portata di un fenomeno che coinvolge il pubblico e la sua risposta ad aspetti del tutto propri del genere romanzesco, additandoli come insignificanti, creando così ancora – perpetuando – uno iato fra critica alta e legittima fruizione e azione del testo romanzesco.
La “zona di lettura” e di lettori che accoglie la forza del romanzesco – una forza del tutto legittima e che non ha, da nessun lato in cui la si guardi, i difetti che la possano far escludere dall’essere degna – è ancora, dopo due secoli di romanzo, bersaglio: non abbastanza concentrata “solo” sullo stile, non abbastanza distaccata dal reale, troppo “romanzesca”. Del resto, possiamo ricordare che questo aggettivo – romanzesco – era, per il romanziere che l’Italia si è scelto, Manzoni, un vero problema?[29] «Mentre si costruiscono piani grandiosi di egemonia, non ci si accorge di essere oggetto di egemonie straniere», osservava Gramsci nel 1930[30]. Se allora il romanzesco arrivava soprattutto da sistemi culturali stranieri, ora, che l’egemonia straniera di altri siamo noi, esportiamo all’estero una letteratura che in Italia viene letta malgrado e non grazie alla critica.
La forza dei personaggi, la capacità di parlare di vite individuali e al contempo condivise, la capacità di emozionare, di rappresentare nei tratti della storia sociale e di costume di un Paese «il potere metamorfico del tempo»[31] e il rapporto spaziale, tematico dell’oggi, fra globale e locale[32]; la capacità della quadrilogia di parlare dell’Italia stessa nelle vicende di un individuo – e non solo di donne (alcune figure maschili in Ferrante sono straordinarie): tutto questo, che è quanto parla al pubblico, alto e basso, colto e incolto, non è importante. Come nel Settecento, il romanzo c’è, è lì, parla dell’Italia, di noi, della “nostra” Napoli, di quello che Napoli può essere, ne parla a noi e al mondo, in quella maniera (da studiare) che trascina e coglie, spiega, e catarticamente rappresenta: ma è una donna, è romanzesco e non straniato da operazioni intellettuali, e quindi non lo si può vedere – riconoscere.
Nel Settecento, lo scandalo e la critica feroce della classe intellettuale per i romanzi che tutti, anche gli intellettuali, leggevano riuscì a ridurre al silenzio i romanzieri; e restarono solo le voci degli intellettuali alti; e a seguire furono Foscolo e Manzoni.
La scelta di essere invisibile è quella che Elena Ferrante spiega anche nella voce sull’identità scritta per il vocabolario Zingarelli[33], quella di poter essere molteplici senza la zavorra dell’identità. Ma, non rivelandosi, Elena Ferrante ha anche scelto la libertà da tutto ciò che, diretto a lei, sarebbe riuscito a ridurla al silenzio – allo stesso modo in cui le polemiche del Settecento riuscirono, nel giro di mezzo secolo, a zittire tutte le penne che avevano nel nuovo romanzo osato scrivere di emozioni forti, di uomini irretiti da donne che correvano per le calli veneziane travestendosi, di uomini e donne comuni che si confrontavano con modi e costumi dell’Italia vera – soli, senza l’aiuto della Provvidenza.
(fasc. 27, 25 giugno 2019)