Per quasi tutti gli autori di gialli i personaggi sono schemi psicologici funzionali ai due temi assoluti: le ragioni del crimine, la scoperta del criminale. Perciò, diceva la grande “giallista” inglese Phillys Dorothy James, nessuno di solito rilegge un giallo dopo averlo già letto. Fernando Pessoa, che aveva già avvertito i limiti di questo sistema, cercò di risolvere il problema affidando al suo investigatore, Abìlio Quaresma, il compito di ripristinare, nella storia e nella scena, la razionalità del disegno scompaginata dalla irrazionalità del delitto, e, dunque, di ricostruire i meccanismi psicologici che avevano indotto il criminale a diventare assassino. Quaresma ha un solo metodo, la lama flessibile, ma infrangibile, della logica: “Indovinare? Non indovino. Non indovino mai. Non so neanche indovinare. Ho i fatti, li analizzo, ne traggo delle conclusioni. E questo non si chiama indovinare.” Ma i fatti costringono Abilio Quaresma, come costringevano il Dupin di Edgar Allan Poe, a scoprire che le psicologie criminali sono molto più frequenti e comuni di quanto si pensi, e dunque a porsi domande, a confrontarsi con il dubbio, ad ammettere che il male non è l’eccezione, anzi può essere una regola, un costume banale.. Il romanzo giallo diventa un romanzo psicologico, che, se è scritto bene, come i romanzi di Maigret, si fa rileggere anche più di una volta. Pensa qualcuno che le trame dei romanzi psicologici siano esposte al pericolo della staticità: non sempre è vero. L’autore, se ha il genio del racconto e della scrittura, riesce a dimostrarci agevolmente che i viaggi nella psicologia dei personaggi possono essere più avventurosi e agitati delle “azioni” che infarciscono i polizieschi americani.
Se l’autore ha il genio del racconto e della scrittura: e Patrizia Rinaldi ce l’ha, questo genio. E’ un dato oggettivo. Blanca è una investigatrice “particolare”, ma la sua “particolarità” non viola le regole del giallo classico: ella non ha “virtù” innaturali e prodigiose da cui l’indagine possa trarre vantaggi imprevisti. Al contrario, Blanca è ipovedente: le scene e i movimenti sono per lei disegni evanescenti, e tuttavia ella può dire, come una greca Sibilla, o come Tiresia, “ho imparato il buio, posso imparare anche quello che non esiste più.”. Il danno alla vista di cui Blanca soffre è uno straordinario congegno narrativo, che nelle pagine del romanzo “La danza dei veleni” dispiega tutta la sua capacità di sollecitare immagini, “figure” stilistiche, invenzioni linguistiche. Blanca Occhiuzzi si confronta con la realtà attraverso le forme dell’intelletto e gli impulsi dei sensi: una donna, per esempio, ella la può associare al profumo dell’albicocca, perché ha una “comprensione” della realtà molto più vasta e articolata, e meno ingannevole, di quella che potrebbero darle gli occhi: Blanca “sente” e pensa, e Napoli stessa viene rischiarata dalla sua percezione, emerge dal buio nella sua luminosa bellezza. Certi “quadri” di Napoli che Patrizia dipinge sembrano uscire dal pennello di Vincenzo Migliaro, e l’atmosfera” di quei momenti in cui il tempo si ferma e tutti i personaggi si aprono, o sono costretti ad aprirsi, per rispondere alle domande di Blanca e per seguirne i ragionamenti mi ricordano i cupi paesaggi vesuviani di Oswald Achenbach. La Napoli di Patrizia Rinaldi è “vera”, perché è vista da personaggi “veri”, che sono sé stessi, e non sono stati infilati nella trama per recitare una parte, la solita parte. Ed è vero personaggio napoletano, nella realtà e nella metafora, Sua Signoria, misterioso padrone di uomini e di animali esotici, malefico architetto di omicidi.
Forse sarà utile dedicare qualche motivata riflessione alla Napoli dei “giallisti”. E ritornerò sullo stile e sul linguaggio di Patrizia Rinaldi, che in questo romanzo “si diverte” a “toccare”, con geniale levità, timbri, toni e ritmi di vario registro, ma sempre nel coerente rispetto della scena e della situazione. Nella descrizione di alcuni momenti degli affetti il periodo è fatto di versi, e ti par di sentire un canto sommesso, ora malinconico, ora ironico, mentre nei passi dell’investigazione la frase si sviluppa come un flusso di argomenti, che avvolge tutti i possibili punti di vista, e alla fine può mettere l’ascoltatore davanti a conclusioni imprevedibili. Blanca sa anche parlare come i grandi avvocati dell’Ottocento napoletano, conosce l’arte della sorpresa. E una geniale sorpresa è l’”arma” del delitto: il morso di un ragno velenoso. Una sorpresa che è anche una preziosa metafora.
Non c’è, in questo romanzo, una sola parola che si sciolga nella banalità. E questa è la prova più convincente del fatto che Patrizia Rinaldi è una splendida romanziera.