Elena Ferrante riferisce di non aver mai scritto su commissione e con scadenze prefissate. Quando il Guardian le chiese di tenere una rubrica settimanale si spaventò e se infine decise di accettare la collaborazione stabilì tuttavia delle clausole: la rubrica sarebbe stata a tempo determinato (un anno) e lei avrebbe risposto a una serie di domande inviatele dalla redazione, a mo' di tema scolastico. Si configurava in questo modo un lavoro del tutto diverso da quello necessario per completare un romanzo: una scrittura di reazione piuttosto che uno slancio creativo autonomo, una risposta a una sollecitazione esterna attorno a cui intessere un breve saggio anziché il nucleo di un pensiero personale da sviluppare. La cadenza settimanale della rubrica poteva trasformarla in una banale serie di pillole di Elena Ferrante, isolate e scollegate fra loro, ed è possibile che leggerla in diretta sul sito del Guardian adeguandosi ai tempi di pubblicazione abbia restituito proprio quest'impressione. Raccolte ora in un unico volume illustrato da Andrea Ucini, queste uscite episodiche si compattano anche tematicamente e incoraggiano l'irresistibile tentazione di notare echi ricorrenti e di seguirli saltando avanti e indietro o tornando a rileggere e raffrontare, scompigliando così l'ordine cronologico. Questa breve raccolta di scritti sparuti diventa allora qualcos'altro, non una punteggiatura ma un abbozzo di ricamo, non un'opera di saggistica ma una forma ibridata che neanche troppo in sordina attinge dalla finzione.
Di Ferrante non sappiamo niente se non quanto scrive lei stessa (e dal momento che ha fatto sapere di voler controllare la propria biografia ciò che ne hanno scritto gli altri è uno scippo non solo del suo anonimato ma anche della sua autorialità: oltre a essere meschino, dunque, è apocrifo). A conti fatti è come non saperne niente. Nel raccontare la sua evoluzione da diarista da cameretta ad autrice di romanzi, fa eco a La frantumaglia («La finzione letteraria mi pare fatta apposta per dire sempre la verità») e ricorda:
Dovevo smettere con la scrittura diaristica e convogliare il desiderio di dire la verità — le mie verità più impronunciabili — dentro racconti di invenzione. Andai per quella strada anche perché il diario stesso stava diventando un'invenzione. Spessissimo, per esempio, non avevo tempo di scrivere giorno per giorno, ma così mi pareva che si interrompesse il filo delle cause e degli effetti. Allora colmavo i vuoti scrivendo pagine che poi retrodatavo. E nel farlo davo ai fatti, alle riflessioni, una coerenza che le pagine scritte giorno per giorno non avevano.
(Tenere un diario, 3 febbraio 2018)
Poco più avanti è ancora più esplicita:
Non riesco a tracciare una linea di demarcazione tra storie vere e storie di invenzione. Progetto, per esempio, un racconto in cui io, a quarantotto anni, d'inverno, in una casa vuota di campagna, resto chiusa nella cabina della doccia, il rubinetto non si chiude, l'acqua calda è finita. Mi è successo davvero? No. è successo a una persona che conosco? Sì. Questa persona aveva quarantotto anni? No. Perché allora costruisco un racconto in prima persona come se fosse successo a me?
(Il finto e il vero, 17 febbraio 2018)
Delle interviste che da anni concede dice semplicemente:
È scrittura che va a collocarsi accanto a quella dei libri come una finzione non molto diversa da quella letteraria. Mi invento per un giornalista, ma anche il giornalista con le sue domande si inventa per me.
(Interviste, 15 settembre 2018)
C'è dunque un patto che aprendo L'invenzione occasionale si ha la tentazione di dare per scontato, stipulato e controfirmato: quando parlerà di se stessa dirà la verità. Non è detto. Potrebbe avere due o più figlie (Figlie, 24 marzo 2018) oppure un figlio, oppure nessun figlio. Potrebbe aver attraversato tutte le tappe dell'istruzione successive alle scuole elementari senza passione, solo per senso del dovere, per riscoprirsi eterna studentessa solo dopo la laurea (Piacere di apprendere, 2 giugno 2018), oppure no. Conta poco: è presto chiaro che ogni elemento biografico introdotto non è che un pretesto per agganciarsi a ciò di cui le sta davvero a cuore parlare. Che sia la necessità delle nuove generazioni di superare quelle precedenti anziché guardare con nostalgia a un passato mitico (e farsi tentare da chi promette di restaurarlo), o la meraviglia divertita nello scoprire un filo che lega madri, figlie e nipoti e che rimane nascosto durante i conflitti della giovinezza per riaffiorare innocuo in vecchiaia (Madri, 25 agosto 2018), Ferrante parte da piccoli episodi, abitudini o idiosincrasie per allargarsi, guardarsi intorno curiosa, dipanare o riavvolgere intrichi e soprattutto interrogarsi. Non si allontana mai troppo da sé e al contempo non c'è modo di determinare se stia veramente raccontandosi o piuttosto costruendosi, sdoppiandosi e triplicandosi e decuplicandosi in un complesso gioco di specchi più che mai capace di avvicinarla a chi legge — e che ciascuno decida se prestare più attenzione all'immagine così nitida o alla possibilità che non si tratti d'altro che un ingannevole riflesso.
Non ci sono solo scorci di vita privata: più spesso Ferrante rivisita e intreccia argomenti che le sono cari, come la scrittura e soprattutto la riflessione sul femminile. La vicinanza e il supporto che riserva alle donne sono totali, senza condizioni. Saputo per esempio che Maggie Gyllenhaal adatterà il romanzo La figlia oscura, decide immediatamente di non interferire:
È un libro a cui tengo in modo particolare e una parte di me vorrebbe che il futuro racconto per immagini di Maggie aderisse pienamente al mio racconto. Ma la parte meno rozza sa che è in gioco qualcosa di ben più rilevante della difesa istintiva delle mie invenzioni. Una donna ha trovato in quel testo delle buone ragioni per mettere alla prova le sue capacità creative. Gyllenhaal ha deciso, cioè, di muovere dalla Figlia oscura non per dare forma di racconto cinematografico alla mia esperienza del mondo, ma alla sua. Ed è questo che va considerato importante, per me, per lei, per tutte le donne. Ogni volta che una di noi prova ad esprimersi, dobbiamo augurarci che la sua opera sia proprio sua e riesca bene. [...] Non mi sento dunque di dire: devi restare dentro la gabbia che ho costruito io. Siamo già tutte da troppo tempo dentro la gabbia maschile [...].
(Libertà creativa, 6 ottobre 2018)
Va da sé che quando è un uomo a voler adattare le sue opere Ferrante non gliele nega ma è assai meno «acquiescente» e gli chiede di non deviare troppo dal testo. Restare dentro quella gabbia «[f]arà bene a lui forse più che a me», taglia corto. Tale disparità di trattamento non rimane circoscritta alla sfera professionale ma è anche buona norma privata: come l'arte, anche ogni altro aspetto della vita femminile «è stato codificato in funzione delle necessità maschili» (Le odiose, 17 marzo 2018) e dunque Ferrante si rifiuta di dir male di altre donne. Non si tratta di ecumenica bonomia, bensì di opporre un deciso rifiuto al divide et impera che incoraggia le donne a competere tra loro per brillare sotto lo sguardo compiaciuto di un qualsiasi uomo. E se tale rifiuto significa restare vicina a «qualche stronza», lei resterà vicina a tutte le stronze necessarie. Controversa e rétro quanto si vuole questa è in tutto e per tutto una posizione politica, sebbene di politica comunemente intesa Ferrante parli poco o niente.
La critica allo sguardo e alla mano maschili, sempre così centrali, sempre così coprenti, sempre primo termine di paragone che riduce tutto il resto a mera differenza, la impegna in più occasioni. Il racconto maschile del sesso (14 aprile 2018) la spazientisce non solo perché le rende chiaro come tutto ruoti attorno alla soddisfazione di lui e che «[i]l nostro piacere è consistito nel vederci collocate indiscutibilmente al centro della loro scena» (corsivo nostro) ma anche e soprattutto perché ritrova le stesse cornici, ormai interiorizzate, anche nei racconti femminili che se ne credono sganciati. Diffida delle lodi dei colleghi maschi perché capace di annusare quella sottotraccia paternalistica che affida alle scrittrici un compito diverso, e meno importante, rispetto a quello assegnato agli scrittori — i quali a dispetto di tutto «tengono rigorosamente per loro la letteratura che rivoluziona, che si spinge su terreni minati, che stimola lo scontro politico e la lotta eroica col potere, che si espone impavida al pericolo in difesa dei valori fondamentali» (Donne che scrivono, 27 ottobre 2018). Troppo spesso ci si preoccupa di avanzare un femminismo che sia rassicurante per gli uomini, Ferrante invece non ha pazienza da dedicare al vantaggio maschile in letteratura se non quella necessaria ad analizzarlo e coglierne il riflesso negli intrecci e nei soggetti delle storie che leggiamo. Divertendosi per esempio a immaginare un genderswap nel racconto di Hawthorne Wakefield, e concludendo che non sarebbe credibile (Al femminile, 8 dicembre 2018), si arrovella sui motivi per cui una situazione o un personaggio sembrano inevitabilmente maschili o femminili ma non giunge a una soluzione definitiva — quasi che il senso di una simile domanda risieda piuttosto (soltanto?) nell'atto di porsela tutti i giorni.