Come si può raccontare l'orrore? È forse possibile fare un narrazione precisa e dettagliata della violenza senza scivolare tra le pieghe dell' autoconuniserazione e riuscendo a sviare dal rischio di una spettacolarizzazione della tragedia? Si può trovare una risposta a queste domande leggendo il libro di Adélalde Bon, La bambina sulla banchisa, racconto autobiografico della violenza che la scrittrice ha subito da bambina, a nove anni quando un uomo abusò di lei, e dei ricorrenti momenti di svolta nelle indagini, uno su tutti la telefonata della polizia, vent'anni dopo il fatto, per notificare che è stato arrestato un sospettato in attesa di riconoscimento. Si tratta ovviamente di un fatto che segna tutta l'esistenza di Bon che con la coraggiosa scelta di scrivere questo libro dà libera voce ai suoi fantasmi e alle sue paure, confidando in un potere taumaturgico della parola e della letteratura, con un dettato che si muove tra crudeltà, sincerità, dolore, fino alla rivincita per una vita che, pian piano, si ricompone. Bon riesce a fare questo con un racconto di grande qualità, che non si abbandona mai a una gratuita drammaticità, ma procede piuttosto in uno scavo che dà conto delle conseguenze della violenza e del sentimento di un corpo che non si riesce più a possedere, diviso in pezzi in cerca di una nuova e urgente unità.