“Com’è vivere su un’isola? … Perché l’Africa è un’isola, vero?...”. Chimamanda Ngozi Adichie ha raccontato l’imbarazzo di aver ricevuto questa domanda, una volta che era a un party o a un evento, da parte di una donna mediamente colta e giovane e benestante: una donna all’apparenza come lei, solo… americana. L’autrice di Americanah e Dovremmo essere tutti femministi, nigeriana in Usa, per pietà non ha raccontato il seguito: ma il seguito tocca a noi mettercelo. Noi, che da un lato abbiamo gioco facile a sghignazzare sulla famigerata ignoranza geografica degli statunitensi, i quali oltre i loro confini percepiscono un indistinto e generico altro. Ma che in quanto abitanti del primo mondo – non americani, ma comunque non africani – sospettiamo di non essere esenti da generalizzazioni e stereotipi. Cosa sappiamo delle cosmologie igbo, delle guerre di religione, delle lingue bantu?
L’articolo che state per leggere è una conferma di questi stereotipi, dato che pretende di parlare di “letteratura africana” come se fosse un concetto unitario, un’isoletta: ponendo il focus sulla Nigeria, ma neanche in via esclusiva. E d’altra parte proprio questa dichiarata ignoranza vuole essere una spinta ad approfondire il discorso, a partire per un viaggio alla scoperta di alcune realtà, non attraverso pensosi saggi di geopolitica, ma grazie alle storie che ci raccontano. Un viaggio in quattro libri che sottintende un percorso, addirittura una progressione: seguiamolo, e il filo apparirà.
Il primo libro è Terra violata (traduzione di Alberto Bracci Testasecca, edizioni e/o), di Mohamed Mbougar Sarr, scrittore senegalese classe 1990. Inizia con l’esecuzione pubblica di una giovane coppia di amanti, colpevoli solo di non essere sposati: la storia è quella di un paese spaccato in due, ma non dalla guerra civile, bensì da un’azione di conquista da parte di un gruppo di estremisti islamici, genericamente denominato Fratellanza. È un paese inventato ma purtroppo estremamente verosimile e riconoscibile (un po’ come la nazione imprecisata del medioriente in cui è ambientato il primo romanzo di Mathias Enard, La perfezione del tiro). I protagonisti tentano di organizzare una bozza di resistenza tramite un foglio clandestino, in mezzo a una popolazione scontenta ma paralizzata dal terrore, e a un certo punto le cose sembrano poter cambiare, o forse no.
Il punto di forza non è lo stile, e tutto sommato nemmeno la trama: emergono ogni tanto dei momenti saggistici, delle riflessioni/spiegazioni che all’utilità sacrificano il ritmo narrativo. Interessantissima ad esempio una breve pagina in cui si indagano le motivazioni - non sempre banali - che spingono gli estremisti a distruggere libri e beni culturali. Siamo insomma dalle parti del romanzo di denuncia, tutto preso dall’urgenza di mostrare come si vive sotto una dittatura religiosa, sotto una dittatura tout court.
A Idrissa sembrava strano che non avesse mai parlato con la madre di quello che stava succedendo. Ma cosa potevano dirsi che non sapessero già tutti e due? Idrissa pensò che in fondo era inutile parlare, ma sapeva che forse proprio quel pensiero era la più grande vittoria della Fratellanza: riuscire a far credere alle persone che parlare fosse inutile e che la Fratellanza, nel proprio linguaggio, potesse parlare al posto loro ed esprimere meglio il loro pensiero. Così, dispensandole dal parlare, le dispensavano anche dal pensare. I regimi autoritari crescono in questo modo, rendendo virtù individuale e collettiva l’idea dell’inutilità della comunicazione e della pigrizia nei confronti del linguaggio. (…) Le persone tacciono perché non ritengono più necessario parlare, tanto tutto sembra loro evidente e chiaro.