L'estrema sintesi potrebbe essere: come trasformare la propria debolezza in forza. E poi, anche, in un libro. Di questo narra Vita su un pianeta nervoso di Matt Haig, 44 anni, da Sheffield, Inghilterra. Parla della ferocia di oggi e di un uomo fragile, un uomo che si perde litigando sui social network con degli sconosciuti del Texas, un uomo subissato dalle mail alle quali non riesce più a rispondere, un uomo preso alle spalle dagli attacchi di panico nei posti apparentemente più assurdi, soprattutto nei supermercati. Andando incontro a questa sofferenza quell'uomo, che è l'autore, arriva a una nuova consapevolezza. Se lui non sta tanto bene, anche il mondo è malato. E non è chiaro cosa sia incominciato prima. Sono sindromi nuove. La solitudine digitale, La lotta impossibile contro l'incedere del tempo, il bisogno di piacere a tutti, in modo compulsivo. Matt Haig è un romanziere tradotto in ogni lingua, scrive libri per bambini ed altri di saggistica. Per la prima volta è al Salone di Torino per parlare della sua ultima creatura, questa specie di manuale di sopravvivenza, dove con dolcezza e ironia prova a rispondere a domande del genere: «Come possiamo rimanere lucidi in un mondo che ci rende pazzi?».
Signor Haig, per scrivere questo libro lei ha dovuto affrontare le sue paure e mettersi a nudo. Quanto è stato complicato?
«È stato più difficile pensarci, che farlo. Appena ho iniziato a parlare della mia salute mentale ho capito che non c'era proprio niente di cui avere paura».
L'eccesso di connessione in realtà ci rende soli. Come ci si difende dal più grande paradosso dell'anno 2019?
«Abbiamo fame di contatti veri. I social media ci danno l'illusione di creare connessioni, ma la cosa con cui ci connettiamo principalmente è la tecnologia stessa. Ci siamo evoluti per apprezzare le conversazione faccia a faccia, il tocco umano, il contatto con le persone, piuttosto che poche parole scambiate attraverso uno schermo. Dobbiamo fare un piccolo sforzo in più per incontrare persone nella vita reale. Dobbiamo uscire all'aria aperta. Esistere nel mondo».
Internet può essere di straordinaria utilità, ma anche una gigantesca fonte d'ansia. Lei ritiene che servano delle regole per porre rimedio a questa nuova malattia sociale?
«Innanzitutto dovremmo incominciare a prendere coscienza del fatto che si tratta anche di una questione di salute. Il problema è che non consideriamo la salute mentale alla stessa stregua di quella fisica, e poi tutto questo è relativamente nuovo e stiamo ancora cercando di comprenderlo appieno. Penso che la dipendenza sia un altro problema. Le aziende della Silicon Valley stanno confezionando prodotti che creano sempre maggior dipendenza e, sì, penso anche che potremmo avere bisogno di limitare le ore che stiamo online per il bene della nostra salute».
I suoi figli sono già vittime della sindrome da like?
«Sono ancora piccoli. Hanno 9 e 11 anni. Ma al più grande piace la tecnologia e preme tutti i tasti che vede, quindi dobbiamo stare attenti».
Non ha paura di essere considerato una specie di guru? Cosa risponde alle persone che le chiedono consigli per migliorare la loro vita?
«Non mi piace essere considerato un guru. Credo che un guru sia qualcuno che ha tutte le risposte. E io sono solo uno con molte domande».
Cosa conosce di Torino?
«Solo l'aeroporto. L'ho visto mentre viaggiavo verso il festival di Courmayeur. Quindi ho molta voglia di uscire da quell'aeroporto e vedere di più. Perché sono già stato molte volte in Italia e la amo: Roma, Milano, Bologna, Venezia, Mantova, la Sardegna e le Alpi. Ho sempre passato momenti molto belli».
Lei descrive un mondo sull'orlo di una crisi di nervi. Ma perché questo tipo di malessere, alla fine, colpisce più nel profondo alcune persone piuttosto che altre?
«Ci sono persone più portate ad avere una malattia mentale, altre che si isolano meglio. Ma penso che tutti quelli che vivono in quest'età di sovraccarico - sovraccarico di notizie, sovraccarico di lavoro, sovraccarico di vita - sono a rischio di andare in crash. Come un computer con troppe pagine aperte».
Nascerà un movimento politico contro la dittatura della perfezione e l'accumulo compulsivo di cose inutili?
«Non so se sarà un movimento centralizzato, ma tanti piccoli movimenti locali ci sono già adesso. Penso che le persone siano consapevoli del fatto che il consumismo ci rende fondamentalmente infelici. E la nostra infelicità serve solo ai grandi marchi che vogliono venderci la soluzione alla nostra infelicità per renderci più infelici ancora».
I social fanno ammalare le persone. Ma al tempo stesso sono un fenomenale strumento di propaganda politica. Secondo molti studiosi, Facebook è stato lo strumento decisivo per diffondere la paura e l'odio che hanno portato alla Brexit. Lei cosa ne pensa?
«Certamente ha cambiato la politica in peggio. Il problema è che non ci sono filtri. Così tutti possono trovare qualcosa che sostenga la loro opinione, per quanto estrema e addirittura falsa quell'opinione possa essere. Inoltre i social media portano sensazionalismo. I punti di vista più assurdi e più commoventi diventano i più condivisi e questo ovviamente, porta a divisione e polarizzazione, due cose che vediamo ovunque».
Le capita ancora di litigare con qualcuno in rete?
«Non più così tanto come un tempo. L'anno peggiore è stato il 2016. Bisticciavo con tutti. Adesso non butto via i miei weekend litigando. con degli estranei del Texas. E più facile così».
Signor Haig, davvero ha imparato a non googlare più il suo nome?
«Sono migliorato. Però mai dire mai».