Venerdì alle 18.30 Silvia Ranfagni presenterà Corpo a corpo, edito da E/O alla libreria Empatia di Teramo. Ranfagni, prima ancora di essere scrittrice, è docente di sceneggiatura e scrittura creativa, e sceneggiatrice. Attualmente sta scrivendo il nuovo film di Ferzan Ozpetek, La Dea Fortuna, una commedia che sarà in sala ad ottobre. Il suo esordio letterario è un oggetto non identificato che si presta a letture molteplici. Presentato in modo unanime come un libro sulla maternità, Corpo a corpo è la storia di Beatrice, borghese quarantenne che, dopo anni spesi a rincorrere il piacere assecondando gli aspetti più edonistici ed egotici della propria esistenza, decide che vuole l'Assoluto. Vuole un figlio. Per averlo si rivolge a una banca del seme e diventa madre grazie alla fecondazione assistita. Fin qui nulla di particolarmente stravagante. Se non fosse che il bambino è chiamato per gran parte del libro "Corpo" e diventa "Arturo" e "Figlio" molto più avanti.
I modi di essere madri sono infiniti, tanti quante sono le donne. Questo Beatrice lo urla nella usa testa di continuo, eppure non riesce a farci pace: è sempre in difetto, sempre inadeguata. Che rapporto hai avuto con lei mentre scrivevi?
«Beatrice incarna l'inadeguatezza della neo-madre in modo estremo: altissime aspettative sul figlio, ma allenamento a sacrificarsi in nome dell'altro pari a zero. Per molti anni della sua vita adulta questa donna ha mirato solo alla propria autorealizzazione e dunque fatica a cedere le proprie abitudini consolidate. Concepisce un figlio per "completarsi", non per "passare" qualcosa: è intrisa di narcisismo e dal neonato si aspetta piacere e pienezza: non può che essere delusa. Attraverso questo personaggio volevo svelare il non detto sulla maternità: è spesso la prima grande rinuncia che una donna contemporanea si trovi a fare».
Avrai capito ormai che il tuo libro è molto liberatorio per tutte le donne che hanno attraversato gravidanze e maternità lottando con gli infingimenti e assecondando il disagio, la solitudine e la violenza che essere madri comporta. Dire che è liberatorio per tutte le donne, anche per quelle che hanno deciso di non "produrre vita". Avevi questa intenzione quando hai cominciato a scrivere?
«Sì. Da madre volevo raccontare a chi non ha figli cosa sia il passaggio alla genitorialità. Volevo farlo senza la retorica ottocentesca che è rimasta appiccicata all'idea serafica e appagante della "maternità". Diventare "madre" non è un passaggio scontato e non avviene con l'apparizione di un nuovo corpo sulla terra: affonda in esperienze lontanissime, della propria infanzia, e solleva tutto il dolore che fino ad allora era rimasto sommerso. Per Beatrice il passaggio alla maternità avviene dopo anni e anni dalla nascita del figlio, e mai in modo completo. Chi ha avuto difficoltà a diventare madre, si sente meno sola nel leggere di Beatrice. Chi ha scelto di non avere figli, è liberato dallo stigma di averci "rinunciato".
Nel libro non ci sono molti personaggi: Beatrice, il Corpo, Cento Euro (psichiatra), e Elsa. Elsa è la tata eritrea che permette a Beatrice di mantenere degli spazi per sé; Beatrice è una delle tante donne «libere dai corpi solo grazie ad altre donne (...) che fanno il lavoro delle donne per loro». Mi sembra una questione capitale: è tempo di ripensare l'emancipazione femminile così come l'avevano costruita le nostre madri?
«Sì, certamente. Fare la madre è un lavoro e non uno qualunque: è importantissimo per la società e, se ben fatto, dovrebbe preparare i cittadini del domani. L'emancipazione della donna ha finora sottostimato cosa sia fare "solo" la madre, un compito che non produce denaro. Questo è un primo punto da considerare. Il secondo è molto più spiccio: per almeno tre anni il bambino vuole sua madre e il padre spesso si dà. La rete di sostegno alla neomamma non arriva quasi mai dall'uomo».
Ora puoi ammetterlo, Silvia: volevi scrivere un saggio di 853 pagine dal titolo Pratica della classe agiata, ma siccome sei una ragazzaccia del cinema hai deciso di devastarci con un romanzo commedia all'italiana. Da un lato hai cercato di scardinare il tabù più intoccabile dell'universo, ovvero la maternità; dall'altro hai concentrato in 150 pagine un attacco potentissimo alla contemporaneità, a tutti i suoi cortocircuiti, In fondo al libro c'è una bibliografia di riferimento, ma ora vogliamo conoscere tutto il tesoro a cui hai attinto, dalla letteratura al cinema, alle serie tv, ai cartoni, alle pubblicità.
«Non so rispondere a questa domanda. Non so a cosa ho attinto o non attinto, ma il modo di crescere i bambini ha a che fare con tutto ciò che è ritenuto importante in una società. Parlare di educazione nell'800 tirava in ballo ben altri valori. È stato naturale raccontare la contemporaneità attraverso una madre eccessiva, prima nel non accudire, poi nel "rendere felice" il figlio per tenere alta la propria illusoria euforia. E anche il rapporto con la tata è ciò che troviamo in molte case: due donne separate da fiumi semantici vastissimi, dove ad esempio la parola "fame" richiama per una la "malnutrizione", per l'altra la "dieta". Sono due donne strettamente unite dall'affetto per lo stesso bambino e divise dal denaro. Avviene in molte case. Comunque sì, avrei voluto scrivere un saggio di ottocento pagine, ma i saggi difficilmente fanno ridere».
Se qualcuno mi chiedesse "qual è la forza di Corpo a corpo?" non avrei molti dubbi. Va bene il tema della maternità, va bene la potentissima visione, ma tutto questo sarebbe stato di una noia mortale se il tuo libro non fosse stato scritto così come è stato scritto. Non si respira mai, è una mitragliata di acume, nulla è inutile. Come sei riuscita a tenerci sulla pagina?
«Io taglio, taglio, taglio. Edward mani di forbice mi fa un baffo. Non tengo nulla, nulla, solo perché "mio". A volte mi è difficile lasciar andare, trascino dei pezzi da una versione all'altra, mi ci attacco, li curo, li limo e cerco di sistemarli altrove, di trovare loro una casa, un orfanotrofio per pezzi tagliati. È una perdita di tempo. Se la pagina dice "ok, funziono", bene. Se dice "no", è no. Comanda la pagina. Chi scrive lavora a servizio. Inoltre io mi annoio facilmente rileggendo e così il taglio è spesso feroce, al limite del cattivo. (Tutto ciò che è più lungo di centoquaranta caratteri è già una sfida alla concentrazione). La prima a volermi divertire sono io, è il mio modo di gestire materiale che brucia».
C'è una scena divertentissima, quella del quarto compleanno del Corpo: un'apoteosi di ostentazione borghese, una scena che mi pare di vedere già sul grande schermo (ti confesso che per un attimo ho pensato che avresti rinchiuso tutti i personaggi in una stanza come Bunuel fece nell'Angelo sterminatore). Puoi anticiparci qualcosa sul futuro del tuo libro al cinema?
«Al momento non ho provato a pensare a questa storia al cinema. Mi sono presa il lusso di raccontare con la libertà che la narrativa offre: non si declina tutto in "fare" come per i personaggi su uno schermo. In una sceneggiatura si cerca l'azione, il regista sul set grida "azione!", e non "pensate!" o "sentite!". Solo in narrativa i pensieri sono roba da esposizione. Questa è una storia che parla di viscere, di pancia e di dolore, se pur ridendo. Non vorrei che di Beatrice restasse solo una risata. È proprio nella parte dolente che coglie un universale. Credo. In ogni caso apprezzo molto l'idea di farne un film. Ho già la colonna sonora: "Mama's gonna give you love" di Emily Wells».