Se scrivo che sono due libri accomunati dalla pesca non rendo un gran servizio ai loro autori: sarà dal 1952, l’anno del Vecchio e il mare, che la narrativa piscatoria non riscuote particolare successo. Se scrivo che sono due libri accomunati dalla provincia non rendo un gran servizio ai potenziali lettori che potrebbero confondere Davide Bregola e Paolo Teobaldi con Andrea Vitali, e sarebbe un grosso equivoco. Fossili e storioni (Avagliano), ambientato lungo il Po mantovano, e Arenaria (e/o), così intitolato per la friabile roccia dell’altura affacciata sul mare di Pesaro, sono dunque accomunati dal sentimento della fine. Un sentimento che nella provincia profonda si diffonde meglio che altrove, in effetti. Chi vive a Milano non può capire. Anche nelle città medio-grandi, fitte di traffici, e nelle piccole città d’arte, pullulanti di turisti, pur nella complessiva decadenza europea le cose vanno in qualche modo avanti. Ma nelle campagne lontane dalle metropoli tutto si sta svuotando e tutto sta crollando, non solo in metafora. «Per giorni il ponte che congiunge Sermide a Castelnuovo Bariano è stato vietato agli autoarticolati e le auto passano solo a senso alternato. Stanno controllando i ponti perché sembra che stiano tutti crollando». Questo passaggio del libro di Bregola, che è il racconto dei sette mesi vissuti in una casa galleggiante ormeggiata alla Canottieri di Felonica, lo può intendere appieno solo chi abita nei pressi del Grande Fiume. Già prima del crollo del Ponte Morandi i ponti padani cominciarono a dare preoccupazioni agli indigeni, ad esempio il ponte di Casalmaggiore è chiuso dal lontano settembre 2017 e i ponti vicini sono perennemente afflitti da cantieri, semafori, chiusure temporanee, lesioni, scricchiolii... Le popolazioni rivierasche, che pagano le tasse come tutti gli altri italiani, e magari sono perfino invidiate da chi abita al Sud e ignora che anche il Nord ha le sue zone depresse, si sentono abbandonate. Spero che sappiano fare di necessità virtù e dalla difficile situazione ricavino qualcosa di buono come ha fatto Bregola: «Ho cercato dappertutto in questo mondo il riposo, un abbandono, una pausa e da nessuna parte li ho trovati se non negli angoli dove ci sono poche persone, pochi monumenti da vedere, dove il vuoto ha preso il sopravvento».
Dei crolli presenti nel libro di Teobaldi, memoria pesarese consegnata dal nonno scrittore alla nipotina Julie, non si può invece incolpare lo Stato. Il San Bartolo «è un monte per modo di dire, una collina provvisoria, che slama a ogni piova da che mondo è mondo, sia chi sia chi comanda: il Padreterno, la Natura, Giove Sereno, Nettuno, Mater Matuta o le altre divinita poveracce del lucus sacer, e ogni tanto se ne taglia una fetta come se fosse un gigantesco saint-honore d’arenaria». Tuttavia non è un disfarsi soltanto geologico, è anche un disfarsi culturale: parallelo allo scomparire in mare di pezzi del San Bartolo è lo scomparire del dialetto, che punteggia la notevolissima prosa teobaldiana, e lo scomparire del mondo contadino che quel monte abitava e quel dialetto parlava. In Teobaldi la questione della lingua è essenziale e subito esplicitata rivolgendosi alla nipotina: «E poi vai a sapere che lingua, quali lingue, quante lingue parlerai...». Facilmente profetizzo che tra le varie lingue dell’onomasticamente straniera Julie non ci sarà il dialetto pesarese, variante del dialetto gallo-piceno o marchigiano settentrionale, a sua volta variante del dialetto romagnolo...
Ho tenuto l’argomento pesca per il finale. La pesca di Arenaria è tutta declinata al passato: la pesca alla tratta («che ormai non pratica più nessuno ma una volta...»), la pesca delle cozze e delle poracce (ossia vongole), la pesca miracolosa dell’imperdibile capitolo IV dove il miracolo non arriva da Dio o da Nettuno ma dalla dinamite. Mentre la pesca di Fossili e storioni fa parte del presente se non del futuro. Sulle rive del Po e nelle sue vicinanze l’uomo sta scomparendo: «Da Legnago a Castelmassa sembra esserci il vuoto». O quantomeno si sta rarefacendo: «All’orizzonte si vedono i camini della centrale termoelettrica di Moglia. Fino a pochi anni fa aveva più di trecento dipendenti, si chiamava Enel, poi l’hanno privatizzata, è diventata Edipower. Ha ottanta dipendenti». Siccome la natura non tollera vuoti, le acque si stanno ripopolando. Sono tornati gli storioni del titolo, lunghi perfino due metri, e non soltanto gli antichissimi pesci baffuti: «C’è stato un momento negli anni Novanta del secolo scorso in cui di anguille non ce ne erano più. Ma nel secondo millennio hanno preso a risalire durante l’estate».
Sono due libri che parlano di estinzione, i racconti padani di Bregola e quelli marchigiani di Teobaldi. E però non angoscianti ma artistici, di quell’arte che secondo Nietzsche serve a non morire della verità, e contenenti ciascuno un segno di speranza: i pesci e la piccola Julie.