È pesarese perché a Pesaro è nato (nel 1947) e vive - in sella alla sua amata bicicletta lo si vede ogni giorno in centro e al Porto - ma Paolo Teobaldi è soprattutto un grande scrittore italiano che racconta storie universali. Si conferma con il suo ultimo libro Arenaria (Edizioni e/o, euro 16, pagine 160). Storie da ridere per non piangere. Una lingua tenera e sorprendente che mai diventa virtuosismo, ma è sempre al servizio della bellezza dei luoghi e delle persone, del racconto di una Storia vista dalla parte degli ultimi. Un finissimo umorismo con venature nere ma sempre gentili. Un monte d’arenaria (che poi non è neanche un monte: 200 m sul livello del mare il punto più alto): la prima altura che s’incontra scendendo dalla pianura padana, 60 km prima del Conero, lungo la costa adriatica. Con un versante, detto le Rive, che guarda verso nord-est, esposto ai venti di maestro, bora, greco e levante; l’altro, verso sud-ovest, benedetto dal sole e dalla storia.
Arenaria raccoglie e accumula episodi della vita costiera di un piccolo tratto di terra: le rive di San Bartolo, raccontate da un nonno alla sua nipote Julie. Cosa vedrà in quei luoghi Julie una volta cresciuta? Forse un mondo furioso, un mondo per turisti, un mondo di sabbia che ha coperto le vite passate, le storie di un tempo, e allora compito del nonno e compito dello scrittore è dissotterrare, tornare indietro e raccontare tutte le storie delle Rive, conservarle per Julie, farle sapere chi è vissuto lì e come si chiamavano le cose prima che lei nascesse. «Te non ti puoi ricordare, non eri ancora nata, e poi ancora non parli, sei nata da poco, e poi vai a sapere che lingua, quali lingue, quante lingue parlerai...anche se i dottori adesso dicono che dentro la pancia della madre uno sente e capisce già tutto: i suoni della città, la musica del conservatorio, l’accciottolio dei piatti sul lavello, lo sciacquone del cesso, il nautofono, la sirena della Croce Rossa o dei pompieri, difficili da distinguere anche per un nativo, il padre e la madre che fanno questioni, o anche solo si beccano per gioco per poi fare la pace a letto: anche se sarebbe sempre meglio evitare di fare questioni davanti ai figli: belpunto... Ma adesso come faccio a spiegare a una bambina di pochi mesi, di pochi anni, cosa vuol dire belpunto? Belpunto... belpunto... belpunto: forse solo con un racconto ...».
Teobaldi ha compassione per i luoghi abbandonati che conservano, annebbiati, i primi bagliori di luce del mondo, il mistero di un sacro in ciò che si dissolve, come in un Vangelo dell’ultima umiltà. Riecheggiano nel suo narrare Cesare Zavattini e un regista immenso come Valerio Zurlini, la necessità di usare un linguaggio di derivazione dialettale come Carlo Emilio Gadda seppe utilizzare. Come sottolinea lo scrittore Franco Marcoaldi: «Per Teobaldi la realtà che ci circonda è piena di miracoli. Per nutrirsene, bisogna tenere i sensi all’erta e imparare le parole giuste per “dirli”. Così come bisogna saper nominare la vita della gente umile e anonima, che svolge al meglio il proprio dovere e sopporta in silenzio le peggiori disgrazie».