Adélaïde Bon ha nove anni quando un uomo, un elettricista emigrato dalla Sicilia a Parigi, la spinge su per le scale del suo palazzo e abusa di lei. Quel fatto traumatico, rimosso in parte per anni, ha segnato l’intera esistenza della donna che attraverso “la terapia, la giustizia e la scrittura” ha trovato una via per sopravvivere. La bambina sulla banchisa (ed. e/o, pp. 208, euro 16) è un racconto impietoso, a tratti crudele, sincero e vibrante, di un’esistenza spezzata e poi, a caro prezzo, ricomposta.
«Mettere su carta la mia vita è stato doloroso ma necessario», spiega lucidamente l’autrice durante la nostra intervista, «ho tenuto per anni dei diari che erano un flusso di coscienza fatto di violenza, risentimento, rabbia. Non era questo che volevo esprimere. Quando mi mettevo a tavolino sentivo che non funzionava, non ero sincera». I momenti di svolta sono stati molteplici, ad esempio quando più di 20 anni dopo la polizia chiama Adélaïde per dirle che hanno un sospettato. Lei scoppia di gioia, intravede la riparazione della giustizia che arriverà cinque anni dopo con il processo e la condanna del suo aguzzino. «Nel frattempo avevo iniziato questa nuova terapia psichiatrica che mi ha dato le forze per scrivere la mia storia. Volevo essere accurata, precisa, chi leggeva doveva guardarmi dentro».
Tutta la vita della Bon è una storia di dissociazione psichica: lei è dolce e perversa, allegra e depressa, piena di vita e poi sull’orlo del baratro, non sente il suo corpo, in particolare la zona del bacino, e gli esercizi a teatro sono una tortura, la costringono a sentire quel corpo che non è più suo, che non prova nulla, né dolore né piacere. «Chi è vittima di violenza vive con una maschera, è complicato entrare in sintonia con se stessi, abbassare la guardia. Ho provato per anni degli attacchi di panico violentissimi, sentivo una cosa in bocca che mi soffocava e mi impediva di respirare, ogni volta credevo che sarei morta».
Il corpo di Adélaïde era prigioniero di quel vissuto rimosso e solo con la terapia i pezzi si sono a poco a poco ricomposti: «Quando ho raccontato alla psichiatra che per anni ho temuto di soffocare, lei mi ha spinto a ricordare, mi ha detto che c’era qualcosa nella mia bocca che mi impediva di respirare... ecco che all’improvviso il ricordo è affiorato vivido e tremendo: lui mi aveva messo il pene in bocca, ecco perché soffocavo. Da quel momento ho smesso di avere le crisi».
PERSONALITÀ MULTIPLE
Nel libro, infatti, è un continuo saltare dalla prima alla terza persona, l’autrice inizialmente non riesce a dire Io perché dopo lo stupro Io non esiste più, c’è un Lei, come se si guardasse da fuori. La psiche è frantumata in mille pezzi, Adélaïde vive preda di personalità multiple. Ha pensato anche di essere schizofrenica. Ma poi l’Io è cominciato ad affiorare: «La scrittura per molti versi è riparativa», accenna un leggero sorriso di chi ha trovato sollievo, «ma senza la terapia non sarei qui con te, sarei sotto terra».
Un’altra tappa importante nella ricostruzione di un’esistenza frantumata è stata la presa di coscienza che la sporcizia, la violenza, il dolore, la perversione, non avevano a che fare con lei, ma con il suo stupratore. «È stato liberatorio, ho messo una distanza trachisonoeciòchemiè successo, e io non sono una persona dedita all’odio e alla violenza. È incredibile come una parola possa cambiare tutto: la mia vera guarigione è iniziata quando ho realizzato che non avevo subito una molestia, ma uno stupro. Questo mi ha liberata da un fardello enorme».
Le meduse sono la metafora scelta dalla Bon per far capire al lettore i suoi stati d’animo lungo quegli anni di dolore: arrivano all’improvviso, te ne accorgi solo quando ti colpiscono e così erano i sintomi dello stress post traumatico. Cammini per strada in un giorno di sole e tutto va bene, poi all’improvviso ti trovi a pensare che non vale la pena vivere, ed è un pensiero così profondo e acuto che non sai da dove sia venuto fuori. «Per sopravvivere mettevo in pratica alcuni accorgimenti: mi schiaffeggiavo, mi dicevo cose terribili, mi stringevo le braccia con forza, qualsiasi cosa purché le meduse andassero via».
LA FAMIGLIA
Poi c’è la violenza perpetrata su se stessi, su quel corpo estraneo che non prova nulla, è come morto: «Quando vieni violentato il tuo corpo è un oggetto, spazzatura, e allora sei portato a vederlo in quel modo. Ecco che ti punisci, ti umili. Bisogna ripulirsi da questi pensieri, ma è un processo lungo e difficile, io ci ho messo molti anni. Devi arrivare alla conclusione non tanto che il corpo sia tuo, ma che tu sia il tuo corpo...senza saresti niente, morta».
Infine ci sono gli affetti: i fidanzati, poi il marito, il figlio, ma soprattutto i genitori che quel fatidico giorno l’hanno accompagnata in questura per sporgere denuncia, ma che forse non hanno ben compreso la portata devastante di quel fatto. «Ero molto arrabbiata perché non riuscivo a capire che quello che mi stava accadendo era una conseguenza dello stupro e per anni ho pensato che la mia dissociazione fosse colpa dei miei, ma poi ho capito che – come me – anche loro non avevano collegato i miei comportamenti esasperati a quell’evento terribile. Solo durante il processo, quando sono stati al mio fianco ogni giorno sentendo esattamente cosa mi era successo, si sono resi conto, erano devastati e mi hanno chiesto scusa. Così ho riscritto le parti che li riguardavano, li ho perdonati». E finalmente la bambina sulla banchisa ha trovato la pace.