Oriente e occidente, est e ovest: due concetti che incarnano la missione editoriale di e/o, ovvero la realizzazione di ponti letterari fatti di storie che vengono da vicino e da lontano, che uniscano culture geograficamente lontane. La ragazza del convenience store è l’esempio emblematico di questa ambizione, non una semplice breccia verso oriente, ma uno squarcio su una letteratura giapponese altra rispetto a quella più nota oggi in Italia, ovvero quella di Murakami e i suoi epigoni.
Sayaka Murata è lontana anni luce dall’archetipo della scrittrice di successo, nonostante il milione e più di copie vendute in patria dal suo romanzo più celebre. Come accaduto per diversi suoi colleghi, però, la notorietà non è arrivata subito, ma solo dopo una serie di pubblicazioni ben accolte, ma non così incisive in termini di vendite. La ragazza del convenience store ha dunque rappresentato una svolta per la sua carriera, senza tuttavia mutare la sua condizione di anomalia nella struttura sociale giapponese in quanto donna, di quasi quarant’anni, non sposata che vive ancora a casa con i genitori.
Non è dunque difficile ritrovare alcuni tratti autobiografici nella sua Keiko, la protagonista del romanzo, le cui scelte di vita risultano incomprensibili ai più e persino ai suoi familiari più intimi. Keiko lavora ormai da 18 anni in un convenience store, abbreviato in konbini nella parlata gergale, un piccolo supermercato aperto 24/7 e molto diffuso nelle città giapponesi, in cui è possibile trovare generi alimentari e beni di prima necessità . Questo tipo di lavoro, caratterizzato da paghe di basso livello, turni scomodi e mansioni poco qualificate, è solitamente destinato a studenti universitari in cerca di qualche soldo per gli extra, mamme che desiderano un impiego part-time o emarginati a cui è precluso l’accesso ad altre professioni.
Per Keiko, invece, il konbini è diventato qualcosa di più di un lavoro. Dentro quelle quattro mura costantemente illuminate a giorno da una luce bianca e asettica, Keiko ha trovato un set di regole sociali e ben definito a cui adeguarsi e che le consentono di essere trattata esattamente come tutti gli altri, se non addirittura da esempio per i colleghi, ribaltando ciò che succede all’esterno dove le sue scelte di vita l’hanno portata ad essere considerata un’anomalia da sistemare: perchè non ti trovi un altro lavoro? Come mai non sei ancora sposata alla tua età? Non credi che sarebbe ora di trovare un uomo con cui vivere?
Quello di Keiko però non è un rifiuto, né un qualche tipo di rivendicazione, ma una conseguenza di un’elaborazione problematica delle convenzioni sociali che la accompagna fin dalla tenera età. Così come a scuola trovava naturale prendere a bastonate due compagni che si stavano azzuffando per rispondere all’invocazione di fermarli, allo stesso modo le è a apparso facile sviluppare un meccanismo imitativo dei comportamenti più diffusi per sfuggire alle domande inquisitorie di conoscenti e non.
Il konbini, con le sue regole ferree, le cerimonie di apertura del turno e le formule di accoglienza dei clienti da ripetere con tutto l’entusiasmo possibile, diventa così un’oasi per Keiko. Lì non c’è bisogno di fingere per essere come gli altri, basta seguire le regole uguali per tutti ed esplicite. Semplice. Le complicazioni nascono fuori, dove nessuno capisce la sua scelta di una vita dedicata ad una carriera che dovrebbe invece rappresentare solo una tappa transitoria in un normale percorso professionale.
Nella prospettiva offerta dalla scrittura della Murata, sempre lieve e pacata nella traduzione di Gianluca Coci, Keiko non è minimamente toccata dalla curiosità dei conoscenti o dalla preoccupazione dei familiari. Ciò che nessun capisce, né in fondo si preoccupa di verificare, è che Keiko sta bene nella sua vita, addormentandosi ogni sera con la musica del konbini in testa e il pensiero agli scaffali da riordinare. La sua esistenza non è un atto di ribellione al sistema, un tentativo di sfuggire alla rigidità della società giapponese che ostracizza chi non si adegua. Keiko, molto più semplicemente, fa solo ciò che le piace. Non odia gli uomini o il cibo elaborato,ma non ha pulsioni di questo tipo, e ambisce alla massima efficienza personale anche se confinata a una mansione che la società considera degradante, senza particolari ambizioni che riguardino la dimensione dell’alloggio o l’abbondanza del conto corrente.
Nonostante l’indubbia carica politica e di critica sociale che un tema simile porta con sé, La ragazza del convenience store più che denunciare la rigidità sociale giapponese pare intenzionato a celebrare l’indipendenza dalle convenzioni e la possibilità di ritagliarsi una vita a misura propria, costruita intorno ai propri bisogni e non sulle strutture sociali che si danno per scontate, ma che in realtà risultano imposte da convenzioni inviolabili.