Che la letteratura di ricerca, la sola che conti, riesca a sopravvivere quasi esclusivamente grazie all’opera meritoria dei piccoli e medî editori è ormai nozione comune. Dopo Finte, La discarica, Il padre dei nomi, La badante, Il mio manicomio e Macadàm, la romana e/o pubblica le superbe novelle a cornice di Arenaria, epopea corale d’un’Italia magica e smarrita, così compendiata da uno dei pochi lettori di professione che ne abbiano stazzato il valore al giusto peso: «Paolo Teobaldi è un uomo giusto, un professore d’italiano (gran padrone di vocabolario e di parole) che vuole restituire onore al Monte San Bartolo (che proprio un monte non è) appostato a nord-est della città di Pesaro e alle piccole costruzioni di arenaria (e i cittadini che le abitano) sparse lungo la sua discesa verso il mare. Case d’arenaria ma anche il San Bartolo è di arenaria, anzi è la riserva di sabbia che muscolosi carrettieri prelevano ogni mattina a vangate per venderla ai costruttori di case. […] Il professore d’italiano finge che un nonno in bicicletta, con la nipote di pochi anni in canna, ripercorra i luoghi (e le imprese degli uomini) che c’erano (e ora non ci sono più) e ne rievochi alla nipote la presenza (ora scomparsa) insieme alla vicende di cui quegli uomini sono stati attori perché lo sappia e ne conservi (per quel che può) il ricordo» (Angelo Guglielmi).
In un’epoca povera di stile e affetta da contenutismo come l’attuale (in cui la pur minima tracimazione dall’alveo della più grigia funzione referenziale, e si dica pure notarile, difficilmente sfugge alla condanna capitale quale insoffribile pedanteria bizantina), la prosa numerosa e sapientemente orchestrata del narratore pesarese - senza dubbio il miglior modello d’italiano degli ultimi decennî, dopo quello bufaliniano, di cui è in parte debitore - rischia di non ricevere competente giustizia, se non perfino di passare scandalosamente inosservata. È infatti il governo della materia anziché la materia, la partitura linguistico-stilistica più che il tesoro tematico a caratterizzare questa scrittura, rendendola pressoché un unicum nell’asfittico panorama delle nostre lettere. A partire dal lessico, improntato a un’esattezza nominativa che non è mai vacuo virtuosismo, ostentazione o pura mimesi, ma celebrazione d’un’umanità amata e rimpianta attraverso il suo particolarissimo socioletto insieme immaginoso e carnale; arcaismi e dialettismi, regionalismi e neologismi non sono soltanto parole, ma presenze concrete cui è affidato il cómpito di suscitare, rivitalizzandoli, microcosmi e musei d’oggetti irrimediabilmente perduti, anche e soprattutto quando sfuggono all’immediata comprensione offrendosi come fantasmi sonori da interpretare d’istinto; un catalogo puramente indicativo: acquidocci, baganelli, baghino, baldigare, basuino, bobe, bora-scura, bregno, buganze, buìna, calcinelli, caliga, cannabucci, cannicce, caparozze, casanolante, castrigotto, cavedagne, cinciangoli, cogollo, crespigni, culaccino, gaida, gaióni, garagoli, gerbidi, gogolo, isoipse, lasce, lecce, lupèria, mazzacavalli, mazzole, mungana, pavate, piscolle, riminéisa, rimorte, rola, rugoloni, sbasoffiando, scherpigni, schiantolini, scionare, scionèra, scocciolata, scupazzo, sparvingolo, stollo, stolzo, strasordini, tughina, turritelle, ventoloni, voliga (solo di rado, e con esiti opposti, Teobaldi cede ingenuamente a tentazioni autoesegetiche, moderando l’operazione - e non si può non pensare al D’Arrigo orcinuso glossatore di sé stesso - fin quasi a estinguerla: «scherpito, cioè carpito»; «a bacìo, cioè a tramontana»; «Ció… cum’è?… re spòs?, cioè, traducendo in italiano: Oh… cos’è ’sta novità?, stai per sposarti? E l’altro di rimando: No… è ch’in m’entra pió i zòcch, cioè: No… è che non m’entrano più i piedi negli zoccoli»; «I sòld i fa gì l’acqua d’insò, cioè i soldi riescono a far risalire anche l’acqua»; «con una gran caliga, cioè con un calcione»).
Ma è nell’amministrazione della cosa sintattica che il Nostro scatena maggiormente la propria creatività. Si legga l’incipit del capitolo VIII, La Croce, che ben rappresenta la media stilistica dell’opera:
«Ma poi, francesina mia, ci sono cose che è fatica spiegare a parole: a te, poi, con tutte quelle lingue che hai in testa.
Forse potrei provare con altri mezzi, col disegno, le matite colorate Giotto, i pennelli, la fotografia… ma dopo come faccio con gli odori? Il profumo della mentuccia pestata coi piedi, o anche con la schiena, quello delle ginestre in fiore, o l’afrore alcolico dei fichi spiaccicati per terra… No, no, devi venire con me sulla panoramica in bicicletta.
Ti porterei su, seduta sulla canna di traverso o sul seggiolino, pedalando nei tratti più facili, non certo en danseuse, magari scendendo di sella e salendo a piedi nei tornanti più duri: non come facevo con tuo padre, ma quella volta avevo trent’anni e frenavo anche in salita. Allora, arrivati al faro, planavamo su Santa Marina Alta e poi su e giù fino a Fiorenzuola di Focara e poi a Casteldimezzo e alla Vallugola, fino a Gabicce Monte e a Gabicce Mare. E poi tornavamo indietro e tuo padre quella volta era contento come una pasqua, tutto fiero del suo babbino caro senza conoscere Puccini, sempre insieme, su e giù per quei saliscendi senza mai scendere, e lui rideva tutto contento come un pacchione, pacchiarotto com’era, perché in discesa prendevo le curve alla garibaldina e cantavo delle canzonacce che avevo imparato nei soldati, purgandone il testo nelle strofe più lerce unicamente per lui: il mio delfino amatissimo a sua insaputa».
Le varie misure sono adibite con rara maestria: la proposizione semplice a una o più espansioni, la frase nominale, la coordinazione a- e polisindetica, fino alle più complesse architetture ipotattiche ritmicamente cadenzate, cui cooperano la calibrata interpunzione e l’atmosfera sobriamente elegiaca (tutto in Teobaldi scocca da un movente lirico, sicché non sarebbe temerario, almeno per Arenaria, discorrere di poème en prose); mai, si badi, debordando da un regime di trasparenza e di classica compostezza: quanto di più lontano dalle oltranze espressivistiche «modellate sul parlato» evocate da più d’un commentatore, nonostante le enumerationes e i moduli litanici:
«scampato aborto, parto podalico, perdita del latte dopo un bombardamento, fantiglioli, tetano, trombosi, reclutamento nella Regia Marina, gaióni o parotite, peritonite, poliomelite, una malattia vergognosa contratta nei tre giorni passati in città al distretto militare; cornata o calcio d’una vacca; caduta da un albero, dal barco o dal biroccio; colica ventosa della mungana; grandinata; pipita del pollame; strage di galline a opera della volpe o della faina; castrigotto o, peggio, perdita d’una falange nell’affilare la falce fienaia sull’incudine, esplosione di una mina tedesca urtata dal perticaro eccetera»;
«tutto quello che c’era da commentare quinci e quindi: le meraviglie del paesaggio, gli scorci improvvisi, il mare sottostante, le vele all’orizzonte, le vigne soprastanti, le ginestre fiorite di giallo; le marughe coi loro profumati grappoli bianchi, gremiti d’api ronzanti; le case coloniche colorate di rosa, i primi capanni, poi baretti, poi ristorantini dai nomi suggestivi»;
i rari - e non sapremmo quanto inevitabili - accessi disfemici:
«paura puttana»;
«un po’ adombrati, per non dire incazzati»;
«ciascuno sui coglioni dell’altro»;
il che polivalente o semanticamente vuoto:
«Che poi, se vuoi averne un’idea […]»;
«più che con le parole, che adesso poi non so neanche quali parole usare»;
gli inserti metalinguistici:
«vissuti nella desiderata pace ed in fraterna amicizia, con tanto di d eufonica che non guasta mai»;
«la risarella, riderella dice il Devoto»;
le sapide movenze comico-“furfantesche”:
«Pultracchi aveva fatto un salto all’indietro, lasciando incompiuta l’ultima bestemmia, che cominciava con Dio-…, così che nessuno seppe mai quale sarebbe stato l’abbinamento bestiale riservato al Padreterno»;
i molti tratti regressivi, ossia le rinunce dell’autore a esprimere il proprio punto di vista identificandosi con la cultura e i modi dei personaggi rappresentati:
«E il giorno di Sant’Antonio Abate, quando le bestie parlano tra di loro, el pòr nònn non aveva alcuna paura a entrare nelle stalle o soltanto a passarci vicino per sentire quello che dicevano, anche se tutti sapevano che sentire parlare le bestie portava male»
e i richiami, anche metaforici, alla metrica e alla prosodia, del tipo «to’ pipìni, to’ pipìni era l’ottonario trocaico rivolto loro», per i quali non si citerebbe a sproposito il gran nome di Gadda («fino al ritmo trocàico d’una estampida, ove il bàttito risoluto del piede regalasse fiere arsi al piancito», Quer pasticciaccio brutto de via Merulana; «Il ritmo del balletto era tutto un ottonario tronco: ralla lilla trilla rì – rondinella pellegrin», «gli venne fatto di declamare altri centododici endecasillabi e trentatre quinarî», «si esprimeva concitatamente, mediante settenari sdruccioli e tronchi», La Madonna dei Filosofi) e di Pizzuto: «Già quante firme e firme raccolte via via nel vicinato, tortuose colonne simili a endecasillabi sciolti, con metri minori e alcun quinario» (Ravenna).
Nessun astio, nessun risentimento turba lo sguardo sì lucido e aguzzo, ma sempre tenero e bonario che Teobaldi spiega sulla storia e sul mondo in un perfetto equilibrio di suono e senso.
Gualberto Alvino
Filologo e critico letterario