Nell’ultimo libro di Paolo Teobaldi, “Arenaria”, ragione della scrittura non è la nostalgia per un mondo scomparso, ma, prima che sia tardi, l’esigenza tenera e urgente di lasciare una memoria. E questo fa il nonno del romanzo (che poi è lo stesso Teobaldi) a beneficio della nipotina appena nata e che un giorno ‘deve’ sapere. Le racconta, dunque, il mondo “in via di estinzione” che è Monte San Bartolo, vicino Pesaro, poco più che un promontorio di pietra arenaria (200 metri sul livello del mare) sempre più mangiato dalla risacca dell’Adriatico. Un piccolo universo di natura e umanità, eroso dal mare e dalle trasformazioni sociali, dalle ingiustizie e da certe inesorabilità (o ritenute tali) della Storia. Per poter narrare questo angolo di terra (il suo paesaggio, i personaggi, le vicende, la rabbia, il dolore, le bizzarrie) l’autore non può prescindere dalle parole spigolose ed evocanti (anch’esse in via d’estinzione) che in quel luogo si usano. Perché difficilmente, un siffatto micro-universo, potrebbe essere raccontato in altra lingua, al punto che nelle pagine di Teobaldi è la stessa lingua a farsi paesaggio, personaggio, introspezione. Dice in proposito Stefano Bartezzaghi: “Teobaldi non scrive parole: le adotta, le alleva e le accudisce così quando viene il momento di impiegarne una risponderà docilmente alla chiamata dello scrittore”. “Arenaria” è pertanto un intenso racconto memoriale, dove un nonno – il pòr nònn – teme la dimenticanza e, quindi, racconta, dice, rammenta. Così da lasciare alla nipote una ricchezza di storie e sentimenti. Un lascito destinato a una creaturina di cui non si sa – al momento che avrà l’uso della parola – “che lingua, quali lingue, quante lingue” parlerà.