Che ricchezza di linguaggio nel libro "Arenaria" (Edizioni e/o, pp. 148, € 16,00) dello scrittore pesarese Paolo Teobaldi. Scritto come fosse un lascito da nonno a nipote, l'autore rimescola con la sua penna la memoria di un piccolo fazzoletto di mondo, una terra chiusa fra l'Adriatico e le prime falde dell'Appennino, a 60 chilometri dal Conero. Un territorio difficile, povero, impastato con il sudore e il sangue dei mezzadri. Una geografia capricciosa, caratterizzata da un'altura di arenaria ridicola, alta appena 200 metri, che muta il suo aspetto perché plasmata continuamente dalla forza della natura. E poi eccoli i personaggi, contadini, carrettieri, operai ignoranti ma colti nel loro necessario sapere quotidiano, gente abituata a portare sulle spalle il peso gramo della vita, accettando i privilegi di chi nasce ricco e le sventure di chi il pane non lo suda e non solo in senso letterale. Grazie a Teobaldi, ogni parola evoca immagini e quel mondo faticoso ed esigente prende forma, e la vita va in scena su un palco di arenaria, così le storie dell'uno sedimentano su quelle dell'altro, legandosi come fanno gli strati di arenaria. I ricordi diventano passato e il futuro è sempre vago, esposto com'è all'imprevedibile incertezza dell'ignoto.