Esiste qualcosa di più frainteso del sufismo? A molti lettori ne è giunta notizia quando Shake portò in Italia T.A.Z., Zone temporaneamente autonome, del filosofo americano Peter Lamborn Wilson, fattosi poi mistico sufi col nome di Hakim Bey. Era un libro impregnato anche di luddismo, situazionismo, psichedelia, occultismo e tantra, ma il fatto che, dopo tante ponderazioni, il filosofo fosse approdato al sufismo, incuriosiva. Anche perché, fin lì, la sola cosa che la parola sufi faceva venire in mente ai più erano quei dervisci turbinanti spesso ridotti a Una attrazione turistica. In effetti, anche il termine stesso deriva da un fraintendimento, dato che fu introdotto in Europa da orientalisti alla ricerca di un modo per scremare ciò che li affascinava dell'islam - la vena mistica - da ciò che gli piaceva meno. Va da sé che il sufismo non sia una mera corrente ma qualcosa che innerva in modo complesso l'intera dottrina islamica, e rispetto al quale, in quanto disciplina esoterica, si può al massimo trovare una separazione rispetto a ciò che dell'islam afferisce a una dimensione essoterica, cioè ai precetti. Sarebbe tuttavia riduttivo figurarsi solo degli asceti, se è vero che tra i massimi rappresentanti del tasawwuf - questo il nome arabo della «via» - figurano uomini (e donne, come la filosofa e giurista Fatima Bint al-Muthanna) capaci di distinguersi in ogni campo dello scibile. Se in Occidente l'unico sufi davvero noto è il poeta Rumi, la figura forse più rilevante fu Ibn 'Arabi, a cui sono attribuiti 800 libri su argomenti che vanno dalla cosmologia alla natura del tempo, dall'interpretazione dei sogni alla realizzazione personale, fino alle biografie e ai racconti di viaggio. Risulta allora prezioso, per conoscere questo veridico «uomo universale» nato a Murcia nel 1165 e morto a Damasco nel 1240, Una piccola morte, romanzo storico-biografico del saudita Mohamed Hasan Alwan (E/O), già vincitore dell'International Prize for Arabic Fiction. Il romanzo ripercorre tutta la vita di 'Arabi, seguendolo nei suoi avventurosi viaggi dall'Andalusia all'Azerbaigian, passando da Marocco, Egitto, Arabia, Siria, Iraq e Turchia. Se la voce di Alwan, piuttosto piana e didascalica, non trova la profondità necessaria per portarci davvero nella testa di un «uomo universale» di quel rango - e tantomeno nell'anima di un mistico: «Su quel che immagini, non si può fare affidamento», ammonisce lo stesso Ibn 'Arabi dall'esergo del capitolo 33 - il romanzo si rivela comunque una lettura preziosa per la capacità di offrire una rappresentazione vivida e ben documentata della varietà del mondo arabo all'apice del suo splendore intellettuale; chi però cerca una propria chiave per il sufismo, farà meglio a tornare sulle iterazioni contemporanee di Bey, sulle poesie di Rumi o, perché no, sull'opera stessa di Ibn 'Arabi, di cui diversi ma rilevanti pezzetti sono disponibili in italiano per gli editori più diversi (e a volte improbabili).