Partiamo da un presupposto: vivere è una roba complicata. Sono pochi quelli a cui viene naturale farlo. Non è un caso se Camus, in un suo saggio, paragona il vivere alla pena di Sisifo di dover spostare un sasso che, di notte, torna inevitabilmente a valle. I termini con cui viene indicata questa difficoltà sono molti, e ognuno ha una sua sfumatura: ansia, angoscia, malinconia, depressione, e così via. Altrettanto numerosi sono i tentativi di descriverla, proprio perché universale.
Sartre si descrive come “fiacco, illanguidito, osceno, digerente, pieno di cupi pensieri”.
Maino, in Cartongesso, usa la metafora estremamente vivida di un “taglio, non la fica, una figa, ma l’antica ferita, un’originaria ferita prenatale mai cicatrizzata, mai suturata, un’antica infezione al centro del petto, che butta spritz e pus, una fistola, ma non sul culo, nel cuore”, che accomuna tutti gli uomini. Riuscire, quindi, a convivere con questa ferita originaria è un po’ la sfida alla base delle nostre vite (di nuovo, Camus: “Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia”).
In questo filone si inserisce il nuovo libro di Matt Haig, Vita su un pianeta nervoso. Il titolo ha una duplice valenza: da una parte suggerisce come questo nervosismo, quest’angoscia, sia universale e planetaria – la nostra ferita condivisa; dall’altra, invece, muove un’accusa diretta verso il pianeta in sé, o meglio la società, colpevole di contribuire attivamente alla nostra ansia.
La particolarità del libro di Haig sta nella sua versatilità, il libro è infatti tre correnti insieme: saggio sociologico sulle cause dell’ansia planetaria, memoir sull’esperienza di Haig, testo ispirazionale. Le tre parti si intersecano per tutto il libro, pur rimanendo sempre piuttosto chiare e distinte. L’importanza di questa divisione sta nell’intenzione di Haig di non limitarsi unicamente a trovare un perché all’angoscia, ma anche un modo per riuscire a conviverci. E, nei momenti buoni del testo, ci riesce pure.
YOU DON’T HATE MONDAYS, YOU HATE CAPITALISM
Haig cerca di comprendere perché l’ansia sia diventata globale e, al contempo, perché il nostro mondo sia diventato un concentrato di angoscia. Il saggio, però, non vuole essere una dissertazione scientifica o sociologica sulle cause sociali, ma più una specie di indicatore, di campanello d’allarme. Un indicare, a chi sta leggendo, che c’è qualcosa che non va e di fare attenzione. Se, quindi, mancano un po’ in profondità l’analisi delle cause, vengono comunque portati avanti alcuni spunti piuttosto interessanti. Per chi vuole approfondire l’argomento, Teoria della classe disagiata di Raffaele Alberto Ventura e Realismo capitalista di Mark Fisher sono due ottimi punti di inizio.
L’ansia che tutti proviamo sarebbe determinata, o quanto meno esacerbata, dallo scollamento fra la nostra velocità ideale e la velocità a cui ci costringe la realtà della società tardo capitalistica. Questa discrepanza è ben esemplificata dal fatto che ora la nostra vita è organizzata attorno all’orologio, ovvero a una suddivisione artificiale ed esterna del nostro tempo:
“Abbiamo consegnato i nostri istinti alle lancette di un orologio. Sempre più spesso siamo noi a servire il tempo, e non il tempo a servire noi. Siamo angosciati dal tempo”.
Ma l’ansia, questa corsa contro il tempo, per sua stessa definizione infinita e perdente, si declina anche in un’angoscia verso il domani. L’idea, cioè, di non accontentarsi mai di ciò che si ha ora, ma di voler sempre di più, e una volta che si ha avuto quello che si voleva ieri, di cercare qualcosa ancora di diverso domani. Un ciclo di insoddisfazione perché l’obiettivo viene cambiato costantemente. Il detto evolviti o muori passa da motivazionale a minaccioso. L’insoddisfazione per ciò che si ha è alla base della società consumistica: se sei soddisfatto di quello che hai, non compreresti qualcosa di nuovo costantemente. È, quindi, nella stessa natura della società consumistica tardo capitalista fare leva sull’ansia per cercare di spronare maggiormente all’acquisto. La società stessa, perciò, anziché alleviare l’ansia fa di tutto per intensificarla. Particolarmente interessante è l’ossessione che ha Haig verso i centri commerciali, per lui vera e propria concentrazione di tutto ciò che di sbagliato esiste.
La discrepanza di velocità che ci costringe a vivere a stimoli infinitamente più alti e costanti di quelli che saremmo in grado di sopportare – il nostro cervello, in fondo, è pur sempre quello di diecimila anni fa – emerge anche nella tecnologia, sempre più pervasiva, sempre più istantanea, sempre più connettiva e quindi i nostri confini sempre più labili e cedevoli. Questa tecnologia (che insomma, è neutra fino a un certo punto) viene sfruttata dai media e dai politici proprio per far leva su quell’ansia che ne garantisce il mantenimento. Ovvero, le reazioni di pancia sono quelle più veloci, e soprattutto sono le più forti, le più sensazionalistiche. Particolarmente indicativo è l’esperimento che un giornalista del New York Times ha condotto su se stesso, informandosi unicamente con giornali cartacei e soprattutto il giorno dopo gli eventi, riuscendo a distaccarsi dal sensazionalismo e dall’allerta continua in cui vivono le news 24 ore su 24. Da questo aneddoto, emerge anche la soluzione che Haig propone in risposta alla società: staccarsi dalla velocità che ci viene imposta. Vivere alla nostra velocità. Il che non è una novità, ma fa sempre bene ribadirlo.
STORIA DELLA MIA ANSIA
Finora, parlando di Sartre, Sisifo, ferite, consumismo e capitalismo, magari si potrebbe avere l’impressione che l’ansia sia un qualcosa di brutto, ma intangibile. Una condizione quasi metafisica. Sarebbe, però, un errore. Haig, infatti, in diversi momenti ripercorre la sua esperienza pluridecennale fra attacchi d’ansia e crisi depressive. Lo fa senza mai scadere nel patetico o nel cercare di essere commiserato. Pur non edulcorando mai il discorso, evita ogni pietismo.
Haig, riportando la sua esperienza, ottiene due cose: innanzitutto ci fa capire come l’ansia sia fatta di carne e sangue, come sia qualcosa di concreto e non un vago concetto, più o meno modaiolo, tipo resilienza; la seconda, che consegue la prima, è renderci consapevoli che non siamo soli. Se, infatti, l’intero pianeta sembra essere nervoso, come una vera e propria pandemia, allora diventa necessario prendere consapevolezza che anche gli altri lo sono. Che la nostra non è una condizione unica, che non siamo gettati nel mondo come malati in mezzo a una società di sani, ma che siamo tutti, chi più, chi meno, nella stessa situazione. È una specie di presa di coscienza di non essere rotti o soli. Una specie di fraternità fra ansiogeni che abbraccia tutti.
Ma questo, forse, presuppone già una consapevolezza della propria condizione di infelicità. Facendo un passo indietro preliminare, allora, Haig racconta, senza troppi filtri, tutto il circolo di rabbia, insoddisfazione, infelicità e necessità di essere apprezzato anche da degli sconosciuti, in cui si trova costantemente. L’importanza di un simile racconto – come d’altronde di qualsiasi racconto – sta nel riuscire a farci vedere quello che proviamo riflesso nell’altro e a rendercelo finalmente visibile. Ovvero, Haig, raccontandoci della propria condizione, riesce a illuminare la nostra stessa condizione, facendoci rendere conto che la nostra rabbia, insoddisfazione e infelicità, sono le stesse che prova lui e che forse non ci eravamo resi conto di provare. E che non siamo soli in tutto questo.
IMMAGINARE SISIFO FELICE
Questa presa di consapevolezza attraverso il memoir è un momento necessario verso la guarigione. Haig, infatti, non vuole limitarsi a una semplice analisi della vita sul pianeta nervoso, ma
“questa volta la domanda era più ampia: come riuscire a vivere in un mondo folle senza impazzire a nostra volta?”.
Il primo passo, come d’altronde per ogni problema, è quello di rendersi conto che ci sta un problema, prenderne, cioè, consapevolezza. Soltanto sapendo ciò che c’è di sbagliato, o quantomeno problematico, nella nostra vita è possibile agire per cambiarlo. È importante riconoscere come l’ansia, l’angoscia, ci rendano particolarmente ricettivi nell’individuare cosa ci manda in crisi. Allora
“il trucco sta nel non lasciarsi sfuggire questa consapevolezza. Trasformare la guarigione in prevenzione. Vivere come quando sono malato, anche senza esserlo”.
Haig, quindi, agisce su due fronti: il primo, più manualistico, stilando tutta una serie di liste, veri e propri vademucum per affrontare il pianeta nervoso – tutti, per carità, giustissimi e sensatissimi, ma che ogni tanto si ha l’impressione che il sottotesto sia che per non essere infelici si deve non essere infelici; il secondo, molto più lirico, vuole farci andare oltre l’ansia, farci vedere quello che l’angoscia e la disperazione ci stanno nascondendo.
Un filone che sta prendendo piuttosto piede in questi ultimi anni è la narrativa delle piccole cose. Il successo di Haruf e della sua Trilogia della Pianura, per esempio, risiede proprio nella sua capacità di proporre una risposta alternativa alla velocità folle del nostro pianeta nervoso. La narrativa dell’invisibile, del piccolo, dell’insignificante, dove non accade nulla e dove la narrazione viene portata avanti nel silenzio, allora, sono una sorta di antidoto all’iper-velocità iper-cacofonica della nostra realtà di social-network e ansia. Haig si inserisce all’interno di questa narrazione che ha lo scopo di ricordarci che dovremmo
“essere noi stessi, intelligenti, autentici, belli, fragili, carenti, imperfetti, animali, mortali, meravigliosi, intrappolati nello spazio e nel tempo, resi liberi dalla nostra capacità di fermarci, in qualsiasi momento, trovare qualcosa (una canzone, un raggio di sole, una conversazione, un bel graffito) e avvertire l’assoluta, improbabile meraviglia dell’essere vivi”.