Un racconto delicato e profondo di quel 5 giugno 1967, quando gli ebrei scapparono da Tripoli. Intervista all’autrice, l’avvocato Daniela Dawan
“Il titolo di questo libro è un verso dell’Ecclesiaste. L’ho scelto perché il vento rappresenta la circolarità: gira e torna sui suoi giri. Rappresenta anche il soffio vitale, l’anima delle persone. E poi, è un po’ come la storia: cancella, spazza via le cose”, commenta Daniela Dawan, avvocato e consigliere della Suprema Corte di Cassazione, a proposito del suo nuovo romanzo Qual è la via del vento, per le Edizioni e/o. Quel vento di cui parla l’autrice, in effetti, è proprio tutto questo: nello srotolarsi della trama accompagna il sentire dei protagonisti, copre di sabbia e terra interi quartieri, quasi a cancellarli, rinnova gli odori e le sensazioni. Insomma, il vento fa il suo giro, come aveva detto Giorgio Diritti in quell’omonimo bellissimo film. Qui la storia da ricordare è quella degli ebrei libici, a lungo residenti in quell’area geografica, ma improvvisamente costretti ad abbandonarla. Era il 5 giugno del 1967, Guerra dei Sei Giorni in Israele. Tripoli diventa una città ostile: la gente è scesa in strada pronta a cacciare gli ebrei, tutti. Incendiano le macchine, rompono le vetrine, assediano le case. Scene già viste, come il vento che torna sui suoi giri, anche i più tristi e dolorosi. E di questi giri si è narrato e si racconta molto poco.
“Un pensiero ipocrita, forzatamente politicamente corretto, ha fatto sì che quelle vicende venissero trascurate e se ne è sempre parlato troppo poco”, commenta Dawan. Che poi continua: “Il mio è un romanzo, non un saggio, ma volevo permettere al lettore di rivivere quella storia, cioè un esodo forzato da un paese arabo in cui gli ebrei risiedevano da lunghissimo tempo”. L’autrice è nata a Tripoli e aveva dieci anni quando è scappata con la famiglia per raggiungere l’Italia e stabilirsi a Roma. Quanto è autobiografico questo romanzo? “In parte è proprio la mia storia: quel giorno del 67 in effetti io e mio fratello siamo rimasti davvero a scuola, unici sgraditissimi ospiti delle suore per tutta la notte, esattamente come accade a Micol, la protagonista del romanzo. E come i suoi genitori, anche i miei erano barricati in casa e non riuscirono a venire a prenderci. Complessivamente, i fatti narrati sono accaduti davvero, ma i personaggi sono completamente di fiction”.
A proposito di suore, quali erano i rapporti, nella comunità italiana di Tripoli, tra ebrei e cattolici? “In gran parte gli italiani che vivevano lì erano fascisti, naturalmente con eccezioni meravigliose, ma serpeggiava un atteggiamento di preclusione verso gli ebrei. C’è un personaggio nel mio libro che fa il sarto e che rifiuta di ospitare la famiglia di Micol soltanto per quella terribile notte, che rappresenta bene quel bigottismo diffuso tra i cattolici locali. Ora viene fatta una narrazione positiva, di amicizia e felice convivenza. La mia memoria di bambina però non corrisponde esattamente a questo: soffrivo di un certo isolamento, a scuola soprattutto”. Quello di Tripoli era però un ambiente piuttosto internazionale… “Si abbastanza, era fatto soprattutto di inglesi e americani. Andavamo sempre al centro sportivo che si chiamava Underwater, gestito da americani. Era un bellissimo posto con la piscina, dove ho visto per la prima volta un albero di Natale. Ma ogni comunità aveva le proprie problematiche, come sempre. Mio nonno, un ottimo avvocato (come Ghigo, il nonno di Micol nel libro), per esempio, aveva molti amici magistrati e avvocati quasi tutti non ebrei. Era un po’ emarginato dalla comunità perché troppo laico. E mio padre sapeva benissimo che avremmo lasciato Tripoli: organizzava la partenza da tempo, ma la rimandava continuamente perché il lavoro gli andava piuttosto bene”.
Dunque ben prima di quel 5 giugno si avvertiva un senso di precarietà. “Sì, molto forte. Avevamo proprio la sensazione che gli arabi non gradissero la nostra presenza. Serpeggiava un certo antisemitismo. E mio padre sapeva che sarebbe venuto il momento di andarcene: non avevamo immobili e il resto delle sostanze lo aveva già trasferito in Italia”.
Tornando al romanzo, la seconda parte riguarda Micol ormai adulta, alle prese con la ricostruzione della sua vita, mentre fa i conti con la nostalgia. Così riesce a tornare, insieme a una delegazione di anziani, nel 2004. “Ci va Micol, non io”, precisa Daniela Dawan, “Ma la seguo in questo viaggio, tra odori famigliari e introspezione. La narrativa serve a colmare buchi nella storia personale, così io viaggio con il mio personaggio, Micol, e mi riapproprio, con lei, della storia”.