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Elena Ferrante. Parole chiave

Autore: Caterina Verbaro
Testata: O.b.l.i.o.
Data: 20 marzo 2019
URL: http://www.progettoblio.com/files/1671.pdf

Se qualcuno avesse ancora dei dubbi sull’avvenuta promozione dell’opera di Elena Ferrante da prodotto puramente commerciale a fenomeno fondatamente letterario, oggetto perciò di analisi e fulcro di molteplici nodi concettuali, farà bene a leggere la ricca monografia che Tiziana De Rogatis dedica alla misteriosa autrice conosciuta e ammirata in tutto il mondo. Negli ultimi anni, a partire dal completamento della pubblicazione in quattro volumi dell’Amica geniale (Roma, edizioni e/o, 2011-2014), si è assistito a un sempre più deciso mutamento di orizzonti intorno a Elena Ferrante: non più semplicemente caso letterario cavalcato dall’industria culturale, col suo corollario di articoli e interviste, che in quanto tale sollecita un’attenzione puramente esteriore riguardo l’identità dell’autrice e il suo successo globalizzato, ma sempre più oggetto di studio e di indagini critiche relative ai precipui caratteri del testo. La stessa monografia di De Rogatis allestisce in tal senso un primo prezioso repertorio bibliografico, che ha peraltro il pregio dell’internazionalità, dato già essenziale per identificare la valenza interculturale del fenomeno Ferrante. Il libro di De Rogatis si pone perciò come spartiacque tra due fasi di attenzione critica: la prima più votata a mettere a fuoco il fenomeno Ferrante e spesso risolta in confronti tra critici di diversi schieramenti (e si vedano in tal senso i dibattiti promossi da www.laletteraturaenoi, 20 aprile – 2 luglio 2015, e da «Allegoria», XXVIII, 2016, pp.109-210), la seconda più attenta al dato testuale e al complessivo significato culturale dell’opera ferrantiana (e si segnala a tal proposito che nei prossimi mesi uscirà un numero monografico della rivista «Diacritica» e si terrà un convegno internazionale presso la Durham University, Elena Ferrante nel contesto globale, 7/8 giugno 2019). Il primo dato da evidenziare è che la monografia di De Rogatis è il sintomo, ma insieme anche il propellente, di un cambio di segno nell’interesse per Elena Ferrante, che dalle pagine dei quotidiani si sposta ora nelle aule delle università (e si segnalano in tal senso anche le ricerche di carattere linguistico sull’opera di Ferrante promosse dalle università di Padova e di Palermo). Le non poche indagini critiche uscite in questi ultimi anni (accanto a quella di De Rogatis si veda almeno il bel saggio di Caterina Falotico, Elena Ferrante e il ciclo dell’«Amica geniale» tra autobiografia, storia e metaletteratura, in «Forum Italicum», 49, 1, 2015, pp. 92-118), non valgono solo come accreditamento dell’opera ferrantiana, ma hanno il senso di una profonda rivisitazione dell’opera, un nuovo percorso che scopre nessi e sensi finora inesplorati.

Connotativa dell’approccio di De Rogatis all’opera ferrantiana è l’abolizione del confine tra quelle che un tempo si usava definire critica militante e critica accademica. È costante, nel corso di tutta la trattazione, il tentativo di individuare il significato culturale dell’opera ferrantiana, e in particolare dell’Amica geniale, e con esso il motivo della sua risonanza internazionale, il carattere precipuo della sua ricezione. Cosa dice al nostro presente globalizzato e tendenzialmente propenso all’amnesia storica questo romanzo? Con quale sguardo oggi recepiamo questa storia emblematica di una generazione di donne – soggetti subalterni – nella periferia di un Paese che tra gli anni cinquanta e novanta del Novecento conosce i più tumultuosi mutamenti sociali ed economici? Queste sembrano essere le domande di fondo che De Rogatis, in una costante e ammirevole attitudine alla riflessione culturale, si pone come traccia di senso del proprio lavoro. Sono questioni affrontate sistematicamente nell’importante introduzione al volume, Un successo internazionale, e nei primi due capitoli, Una narrazione geniale e popolare e L’amicizia femminile, ma che via via, dipanandosi le tematiche essenziali dell’autrice, vengono riprese in tutti gli otto capitoli, da diversi punti di vista: si pensi, ad esempio, ai due capitoli maggiormente focalizzati sui topoi della soggettività femminile, il capitolo terzo, dedicato al rapporto tra madri e figlie, e il sesto, che affronta le tematiche della sessualità e della colonizzazione del femminile nell’Amica geniale. O si pensi a come, nell’ottavo e ultimo capitolo della monografia intitolato La Storia e le storie, la studiosa ripercorra le vicende romanzesche leggendole come microstorie alla luce della grande e collettiva Storia dell’Italia e delle donne e utilizzando anche categorie proprie del pensiero femminista (Irigaray, Lonzi, Muraro).

Il libro di Tiziana De Rogatis vuole con tutta evidenza porsi come circumnavigazione esaustiva dell’opera ferrantiana, se è vero che l’Amica geniale viene letto in controluce con i precedenti romanzi e soprattutto con quello zibaldone in continuo accrescimento che è La frantumaglia (Roma, e/o, 2003, nuova edizione ampliata ivi 2016), che raccoglie articoli, lettere, riflessioni, ponendosi come sede di una volutamente disorganica poetica d’autore. La messa in dialogo dei diversi testi, narrativi e critici, di Elena Ferrante, costituisce una scelta metodologica di sicura efficacia critica, perché, costruendo reticolati di senso, consente una più fondata interpretazione del romanzo principale, che viene così a essere del tutto sottratto alla sua vulgata semplificatrice di narrazione accattivante e strumentalmente popolare. Si pensi, ad esempio, a come questo metodo intratestuale porti alla luce la centralità del topos mitologico nell’opera di Ferrante, sapientemente intessuta di quei veri e propri archetipi del femminile rappresentati dalle figure di Didone, Medea, Arianna, Persefone, presenti frequentemente tanto nel tessuto onomastico e attanziale dei romanzi, quanto nelle riflessioni saggistiche. De Rogatis individua una trama unica, coerente ma insieme sfaccettata, tra le diverse scritture di Ferrante, scegliendo la chiave di lettura della centralità del femminile, considerando tutta la sua opera «leggibile come un unico ininterrotto discorso sulla soggettività femminile» (p. 100).

È questo il più importante significato culturale che De Rogatis sembra assegnare all’opera di Elena Ferrante: aver costruito una narrazione del femminile sfaccettata e profonda, che, come una ribellione, muove proprio dalla difficoltà, stratificatasi nel tempo, di costruire e di affermare una soggettività di genere davvero libera dagli stereotipi maschili, quella «invenzione della donna da parte degli uomini» (E. Ferrante, Storia di chi fugge e di chi resta, Roma, e/o, 2013, p. 323) che nel terzo volume della tetralogia sarà il tema di uno scritto di Elena Greco. Il riferimento che De Rogatis fa alle vicende attuali del #metoo rende chiara la sua volontà di leggere il romanzo in relazione ai suoi significati culturali, alla sua ricaduta sulla realtà del presente, secondo la lezione molto presente e incisiva di Bourdieu. L’amica geniale diventa allora nella lettura di De Rogatis il romanzo che disvela la cattiva coscienza della Storia nei confronti del genere femminile, e per estensione nei confronti di tutti coloro che hanno subito una «violenza simbolica […] condivisa dal dominato» (p. 197). In tal senso tra i motivi ritornanti nell’interpretazione di De Rogatis hanno un ruolo preponderante le relazioni femminili: da una parte l’amicizia tra donne, quella tra Lena e Lila in primo luogo, sottratta a ogni rappresentazione edulcorata, dall’altra la relazioni con la madre e col materno. De Rogatis usa il termine «matrofobia» (p. 103) per esprimere il ripudio, il conflitto, lo sforzo di disappartenenza che nel romanzo segna tale rapporto. Ma a livello più profondo l’analisi rivela come le giovani protagoniste si facciano portatrici di una memoria di genere che inconsapevolmente le associa al destino delle madri, non solo e non tanto quelle biografiche, ma le stirpi delle antenate, le madri della loro classe sociale, le donne innumerevoli e sconosciute che hanno attraversato la storia nascoste in una qualche «eterotopia» - concetto foucaultiano evocato da De Rogatis - che le ha nascoste, protette e annullate. La studiosa legge tutto il percorso compiuto dalle due protagoniste come lotta per acquisire la propria soggettività femminile, incarnando ma contemporaneamente negando l’eredità materna, quella che nelle paure di Elena Greco si manifesta come l’eredità paventata della gamba zoppa, il «segnale matrofobico» (p. 102). In tal senso la lettura critica condotta da De Rogatis, che pure è empatica e appassionata, non è per niente accondiscendente nei confronti del femminile espresso dal romanzo. In particolare la figura di Elena Greco è interpretata come il prodotto di una colonizzazione sociale, culturale, linguistica: nei suoi percorsi di formazione e di avanzamento sociale – il liceo classico nella zona borghese di Napoli, la Normale di Pisa, le frequentazioni intellettuali e altolocate – e nel suo stesso apprendimento di una lingua altra rispetto al dialetto del rione, la lingua della scuola prima e della scrittura poi, Elena svela per De Rogatis il suo essere «colonizzata dal mondo borghese» (ivi, p. 227), costruita secondo un camaleontismo che, come si afferma riprendendo la lezione di Said, è carattere precipuo dello sradicato, mezzo di «sopravvivenza all’esilio» (ivi, p. 167).

Tra i tanti pregi di questa indagine c’è certamente quello di mettere a fuoco degli antecedenti letterari della scrittura di Ferrante che finiscono per costituire una vera e propria genealogia, in buona parte sovranazionale (Lessing, Atwood, Woolf), ma che in particolare ci sembra efficace nell’individuare i modelli italiani in Elsa Morante, Annamaria Ortese, Fabrizia Ramondino. Il fiabesco, il melodrammatico, il mitologico, sono alcune delle modalità e delle categorie espressive che De Rogatis convoca a proposito della narrativa di Ferrante, che per tale tramite si svela profondamente radicata a tradizioni e filoni anch’essi spesso dominati e subalterni nella nostra storia letteraria. In tal senso sembra agire con particolare forza il modello di Morante, per la comune volontà di attingere a «certi fondali bassi del raccontare» (E. Ferrante, La frantumaglia, 2003, cit., p. 76), che per De Rogatis si traduce nel riuso ferrantiano di «sottogeneri come il romanzo d’appendice, il thriller, la sceneggiata napoletana e persino il fotoromanzo, che si trovano appunto ai margini» (p. 29).

Infine, in un libro che esibisce fin dal titolo un procedimento di tipo tematico, ci sembra che piuttosto i risultati migliori, i più incisivi e innovativi nella lettura di Ferrante, siano da rintracciare nelle osservazioni formali e strutturali e nell’indagine critica dei meccanismi narrativi. Penso in particolare alle considerazioni relative alla voce narrante e alla mobilità del punto di vista (l’alternanza della focalizzazione tra le due protagoniste come chiave procedurale del racconto, ma anche, ad esempio, lo spostamento del punto di vista sul personaggio di Stefano nella scena dello stupro di Lila), o all’individuazione di una diegesi che con vari accorgimenti metalinguistici lascia trasparire un magmatico e sotterraneo strato dialettale (se ne parla soprattutto nel capitolo quinto, Le due lingue, l’emigrazione e lo studio). Ulteriormente felici e illuminanti ci appaiono poi una serie di considerazioni relative all’organizzazione del racconto, dall’impianto decisamente metanarrativo che sottolinea la pluralità dell’assetto cronologico, alla messa a fuoco della ferrantiana tecnica iterativa e spiraliforme nella narrazione di alcuni episodi ritornanti. Si segnala poi l’uso critico di alcune categorie, sapientemente declinate da De Rogatis alla stregua di allegorie compositive, dalla «smarginatura», che non è solo il fenomeno panico che colpisce Lila ma anche una precisa modalità narrativa, all’«istruttoria», metafora utilizzata da Carla Lonzi per alludere alla «sterminata fenomenologia» delle storie che convergono nel racconto, tutti espedienti mirati a costruire una recepibilità del flusso del tempo dentro la narrazione, ovvero nell’unico luogo, come osserva il Ricoeur evocato alla fine della monografia, in cui tutto – le storie collettive e individuali, il peso del passato e degli avvenimenti - si fa percepibile e sensato.