È diventato difficile dire qualcosa di originale della tetralogia de “L’amica geniale”, dopo il tanto già scritto, alimentato, oltre che dai (molti) pregi e (pochi) difetti della scrittura, anche dalla misteriosa identità dell’autrice.
Anche su questa rivista online ne ha parlato, e bene, Sara Collicelli: anzi, quell’articolo, assieme alla buona trasposizione televisiva del primo libro, è stata per me la spinta definitiva alla lettura delle oltre 1600 pagine in compagnia di Lenù e Lila, le protagoniste geniali, ognuna a modo suo, della saga. Ma non si può passare così tanto tempo “dentro” ad una storia senza tentare di metterne a fuoco le suggestioni principali che ti suscita.
Anche perché la vicenda copre un arco temporale dall’immediato dopoguerra (le due amiche nascono nel 1944) fino al 2008, cioè un tempo che mi appartiene completamente e che mi permette di riconoscere lo sfondo economico e socio-culturale che la Ferrante usa, evocandolo con molta discrezione e perizia, non tanto perché voglia parlare di quello che è successo nel paese in quegli anni, quanto per dare sostanza e senso all’agire delle due amiche in relazione al contesto in cui si trovano.
Gli anni della scuola e le incerte possibilità di emancipazione dalla misera realtà del rione in cui sono nate, comune peraltro a molte realtà dell’Italia dell’immediato dopoguerra, le sofferenze amorose ed adolescenziali acuite dalla ottusa e bigotta repressione sessuale, il lavoro e la vita matrimoniale viste come speranza di riscatto sociale, e, a seguire, gli aneliti culturali con il femminismo e le lotte operaie, le scelte politiche giovanili orientate conflittualmente fra destra e sinistra, i fantasmi del terrorismo, l’imborghesimento e i conflitti coniugali e con i figli, sono esperienze che possiamo capire e condividere, ma non sono raccontate per il valore universale che possono avere, ma tratteggiate e suggerite in stretta correlazione ai comportamenti agiti dalle due eroine e alla definizione complessa della loro personalità e delle dinamiche relazionali ed emotive che le legano.
Fin dall’inizio la loro amicizia è fatta di complicità (nel fantasticare sulle figure spesso torbide e negative degli adulti), ma soprattutto di competizione e di emulazione che generano contemporaneamente conflitto e motivazione a superarsi nel processo di crescita.
In tal senso il primo e il secondo libro (a mio parere i più riusciti) sono fondamentali: e se le azioni delle bambine che crescono sembrano divaricarsi, con Elena/Lenù (la narratrice in prima persona della storia) che si orienta allo studio con disciplina e determinazione e con Lila che decide invece, fermata agli studi dalla famiglia indigente, di vivere seguendo un carattere impulsivo e passionale, dedicandosi alla creazione di calzature per una piccola azienda imprenditoriale di famiglia con padre e fratello, in realtà le due amiche sembrano animate dagli stessi obiettivi e si attraggono e si respingono alternativamente vivendo esperienze tanto diverse che si integrano quasi a comporre una sola vita vissuta in condivisione e simboleggiata in particolare dall’attrazione verso lo stesso maschio-alfa Nino.
Uscire dal rione, liberarsi da quel microcosmo fatto di miseria, ignoranza, delinquenza e omertà: questo è, soprattutto, l’obiettivo condiviso. E tutto lo sviluppo narrativo è sostenuto da questa necessità, pur percorsa dalle due per strade diverse: Lenù esce, anche fisicamente, dal rione, studiando alla Normale di Pisa, sposandosi a Firenze, separandosi, tornando a Napoli già acclamata scrittrice di successo.
Lila invece, sposa giovanissima e benestante con il “ricco” del quartiere Stefano Carracci, si separa per una passione amorosa e aleatoria (Nino Sarratore appunto) e accetta poi un lavoro durissimo che la avvicina alle lotte operaie e la immette nel circolo pericoloso del terrorismo, salvo poi riscoprire assieme a un nuovo compagno (il mite e paziente Enzo, forse l’unico uomo positivo illuminato dal romanzo) le sue qualità di imprenditrice nella nascente disciplina delle tecnologie informatiche: ed è a questo punto che Lila torna nel suo vecchio rione da protagonista e con l’ambizione di cambiarlo dal di dentro, anche rovinando la carriera malavitosa dei ras mafiosi, i fratelli Solara, anima nera del quartiere, anche a prezzo della misteriosa perdita di un figlio.
Le traiettorie di vita delle amiche si allontanano e si riavvicinano ciclicamente, accelerando nei due ultimi libri che sono un condensato a volte necessariamente un po’ superficiale di molti passaggi (e questo è un limite forse inevitabile data la vastità della materia narrata dalla Ferrante), ma l’autrice riesce con molta maestria a non smarrire mai i vari fili narrativi che legano i molti personaggi che interagiscono con le due protagoniste. Ma davvero sono due? O non saremo forse in realtà in presenza di un’unica protagonista, come da qualche commentatore ipotizzato?
Lenù, affermata scrittrice, scrive, ormai ultrasessantenne, la sua storia con l’amica Lila, ormai improvvisamente scomparsa senza lasciare alcuna traccia di sé ( come raccontato nell’incipit del primo libro).
Il mistero di questa amicizia può essere la verità di una sola persona che racchiude in sè stessa la pulsione a tagliare le proprie radici, a scappare lontano per poi rendersi conto che non si può vivere senza radici oppure a viverle fino in fondo, dal di dentro, queste radici, anche pagando prezzi troppo alti per non essere fonte di un dolore indicibile. Oppure è davvero la storia di una amicizia così intensa e inaffondabile anche nei conflitti che ci narra come per quanto si ami o condivida una vita intera con un’altra persona, questa comunque ci sfugga con la sua verità più profonda e intima, lasciandoci solo come testimonianza sua una vecchia bambola che credevamo persa e mai più ritrovata, solo simbolo della innocenza perduta.
Elena Ferrante ha scritto un grande romanzo popolare, che richiama forse intenzionalmente la grande tradizione del feuilleton ottocentesco: ma lo fa proponendocelo nella sua tradizione più nobile, con una scrittura molto sobria, controllata, che non indulge mai alla ricerca di effetti eccessivi, che pure ci si potrebbero aspettare nel contesto da sceneggiata napoletana che fa da cornice alla storia: si concede forse qualche stereotipo nelle figure di contorno, e pure essenziali, come Nino il rubacuori di cui si innamorano entrambe e che ripropone la tipica figura dell’intellettuale di sinistra rivoluzionario a parole negli anni della contestazione e poi solidamente incistato nella politica corrotta degli anni Ottanta, o come il padre dello stesso Nino, il Donato Sarratore molestatore di Lenù adolescente, detestato dal figlio giovane intellettuale, e a cui lui finisce per assomigliare nella irresponsabilità e nella vacuità nel relazionarsi all’universo femminile, il vero centro del lavoro di Elena Ferrante che riesce a catturarci con una narrazione che diventa di volta in volta romanzo di formazione e di emancipazione, di stampo sociale e coniugale.
Un romanzo multiplo e allo stesso tempo compatto, certamente da leggere con grande partecipazione e piacere.