Abbiamo già parlato del nuovo romanzo di Daniela Dawan, edito da Edizioni E/O, Qual è la via del vento. Temi fondanti dell’opera sono la guerra, in particolare il conflitto tra Israele e mondo arabo durante la Guerra dei sei giorni del 1967, l’esilio, l’approdo in una terra sconosciuta, la difficoltà o in certi casi l’incapacità di integrarsi in una nuova società, di far parte di un altro mondo. Infine, il ritorno.
Lunedì, 11 marzo, ha avuto luogo presentazione di questo libro presso il Teatro Franco Parenti di Milano. Daniela Dawan ha dialogato con Lorenzo Cremonesi, giornalista del Corriere della Sera, e l’attrice Roberta Lidia De Stefano ha letto alcuni dei brani più significativi del romanzo. Noi de Lo Sbuffo eravamo presenti e abbiamo avuto l’occasione di fare una breve intervista con l’autrice.
Ciao Daniela! Prima di tutto volevamo farti i complimenti per il tuo libro, che abbiamo letto con molto diletto. Partiamo subito: Qual è la via del vento è un romanzo che ha una forte componente autobiografica. La protagonista Micol ha dovuto abbandonare la sua terra natale a causa della guerra, ma ha l’occasione di ritornare più di trent’anni dopo, quando il colonnello Gheddafi cerca di riaprire un dialogo con gli ebrei libici che erano emigrati in Italia. È stato così anche per te? Hai avuto l’occasione di ritornare in Libia una volta adulta?
Grazie, mi fa molto piacere! No, in realtà è tutto romanzato, ma trae spunto da vicende reali. In parte io ho vissuto quelle situazioni in Tripoli, quel giorno di guerra. No, io non ho avuto occasione di ritornare, ci ho mandato Micol.
Quindi, ci sei ritornata tramite l’immaginazione?
Esattamente. Non sono più potuta tornare perché non era possibile farlo. Adesso ovviamente non lo farei mai [data la situazione odierna, ndr]. Avrei tanto voluto rivedere i luoghi della mia infanzia, purtroppo è stato impossibile. Devo dirti che ho sempre cercato quei luoghi, quasi li rubavo dalle immagini televisive e attraverso Google Maps tentavo anche di vedere la città, ma era schermata. È sempre rimasto un luogo mitizzato per me.
Quindi hai anche un atteggiamento molto diverso da quello della tua protagonista, Micol. Infatti lei prima di ritornare guarda con molto distacco la Libia e le problematiche che coinvolgono la componente ebrea che da lì è sfuggita, come se avesse deciso di dimenticare consciamente le sue origini per un profondo istinto di protezione.
Esattamente.
Nel libro, Micol e i componenti della delegazione ebrea, una volta arrivati a Tripoli, decidono di fare una specie di tour nella città, volto a ritrovare i luoghi in cui avevano vissuto un tempo. Qui emerge uno dei temi più significativi dell’opera, ovvero il ritorno, che si declina in maniera differente in ogni personaggio e che attua una vera e propria svolta emotiva ed esistenziale. Dunque, che senso ha secondo te ritornare? È davvero necessario un ritorno, fisico o meno, per ”fare pace” con il passato?
Non lo so. Può essere che serva. È un po’ come quando sai che una persona è morta, quando un legame muore. Se tu non vedi quella persona morta, non ti convincerai mai fino in fondo che l’hai persa, continuerai a pensarla come l’hai sempre vista. Il fatto di vederla morta ti mette di fronte alla realtà, ti distacca. Io penso che in realtà tornando il ricordo e la nostalgia svaniscono, perché sono come braci alimentate dalla distanza. Nel momento in cui tu ti riavvicini e fai i conti con il passato, sicuramente fai un passo avanti. Infatti Micol, nell’epilogo, non si volta indietro. In quel non voltarsi c’è l’atto di aver chiuso una storia. Dunque, ecco, forse il ritorno può creare quella distanza emotiva che la memoria non crea. Una volta che ritorni e prendi atto che non c’è più quello che hai lasciato, allora non sei più portato a coltivare la memoria e a darle potere.
Uno dei personaggi più interessanti è quello della madre superiora dell’istituto scolastico frequentato da Micol. Questo personaggio sembra essere un simbolo, che si riferisce non solo alla componente cristiana della popolazione, ma proprio alle persone che non vogliono prendere una posizione, pensando soltanto a se stessi. Tuttavia è proprio adottare atteggiamenti del genere che rende possibile la violazione dei diritti umani e la violenza. Crede che oggi, nella civilissima Europa in cui non ci sono conflitti bellici, ci sia ancora questa colpevole indifferenza?
Sì, certo. Primo Levi aveva parlato della «zona grigia». Molte persone si trovano in questa zona grigia e preferiscono non essere coinvolte, anche oggi.
La storia della famiglia Cohen, come quella di Elia, Simone e Marcello, è una storia di migrazione. È una pura coincidenza che lei abbia scritto questo romanzo in un simile momento storico, oppure uno dei suoi intenti è proprio quello di indurre alla riflessione su un tema così importante e attuale, al fine di provare a rinunciare, almeno un poco, alla paura che abbiamo del diverso?
È un caso. Le riflessioni vengono da sé, ovviamente, ma non c’è nessuna intenzione in quel senso.
Però è molto significativo come hai individualizzato ogni personaggio, ogni storia. Oggi siamo portati a disumanizzare, massificare tutte le persone che approdano in Italia e in Europa. Il tuo libro invece mostra che ognuna di queste persone ha la sua storia.
Sì, sono d’accordo, è un punto interessante questo, molto vero: ogni persona ha la sua storia.
Domanda più strettamente letteraria: a quali modelli letterari ti sei ispirata? Vi sono scrittori o scrittrici che apprezzi in modo particolare?
Mi piace moltissimo Riccarelli, perché la sua scrittura così delicata e quasi onirica, sognatrice, la sento molto mia. Tanti autori mi ispirano. Le storie mi vengono un po’ anche dai fratelli Singer, ho letto tutti i loro libri. Ovviamente non leggo solo autori ebrei, tutt’altro.
C’è un libro che consiglieresti ai nostri lettori?
L’isola di Arturo, di Elsa Morante.