Sembra, in apparenza, una narrazione realistica quella che Sacha Naspini cesella nel suo «Le case del malcontento», impreziosita dall’uso sapiente del vernacolo locale, dal disegno accurato di quei dettagli paesani che fanno tanto colore locale: modi di dire, imprecazioni, il netto e diretto volgare toscano che tanto diverte quelli che toscani non sono e, allo stesso tempo, solletica e inorgoglisce la gente del posto quando se lo trova sbattuto sulla pagina con tutti i crismi della letteratura.
Al contrario, si tratta di una lingua sfacciata e cinica, aspra e rabbiosa, sboccata e impietosa, che si nutre di disincanto e irride ogni residua bontà, ogni possibile gentilezza della vita: il realismo sfuma in una magia cattiva, un incanto ostile che inquieta e paralizza non solo i personaggi, smarriti nei loro soliloqui, ma anche i lettori che si avventurino per le strade tortuose dell’immaginario borgo maremmano.
«Vai a tartassare i Ponenti, che a forza di mettere chiodi tra poco si stende una ferrovia. Fanno i furbi, ma anche noi si deve mangiare e cacare come tutti».
«Invece la mamma era brutta e secca e con l’occhio sempre arrabbiato. Proprio non capivo come quel bel ragazzo delle fotografie avesse potuto darsi a lei, che camminava tutta cianca, e per di più aveva una voglia di cinghiale in mezzo alla fronte, dove ci cresceva il pelo. E le mani grosse, quasi da uomo, che ad averci messo un filo di smalto sarebbe stato come averlo dato sugli zoccoli di un ciuco».
«Non gliela do vinta neanche morto, ma se continua così un giorno di questi stiro le gambe per davvero. Fumo cento sigarette a nottata. Va a finire che oltre a questo scherzetto del tic-toc mi regali anche un bell’enfisema, così si stappa lo spumante e volo da voi a briglie sciolte».
»Povero Divo, marito mio. È sempre così arrabbiato, e alla fine lo capisco. Negli anni l’ho messa in capo a ogni compaesano che mi passava a tiro, dai più giovani a quelli bavosi. Tranne a lui, che continua a dormire nel letto con me, ma alla rovescia, perché russa forte e a volte si sbraccia nel sonno e mi tira le manate, come se dal mondo di là gli dicessero quel che ho combinato nei frutteti. Invece della mia faccia, da quarant’anni si ritrova con un paio di calcagni accanto al cuscino».
«Ed erano arrabbiati come belve, visto che mentre loro erano stati a spaccarsi i polmoni all’altoforno o nelle gole della piana, qualcun altro era andato a passeggio per il mondo con la camminata da sciscì».
Quella che viene raccontata è una Maremma amara e durissima, la fisionomia deformata in un terrificante ghigno espressionistico, la cosiddetta normalità ridotta ad una mostruosa parodia di se stessa: di certo non la Toscana festosa e sboccata dell’abituale stereotipo. Alla fine ti ritrovi a chiederti: da quale buco fangoso riemergono le narrazioni di ambizioni innominabili, occasioni mancate, scambi di persona, adulteri, ammazzamenti, odi, invidie, ripicche, infelicità, incesti, tutto il marcio che il ventre molle del paese ha nascosto dietro la facciata rispettabile del duro lavoro, della religione, della famiglia?
Forse sono tutti morti. Il paese ha inghiottito i loro destini, li ha incatenati ai loro segreti, li ha segregati al sogno, o all’incubo, di vite non vissute, interrotte, abortite. Dalla cella della loro solitudine, raccontano tutti la medesima storia, ma per frammenti, attraverso indizi contraddittori e ambigui che finiscono per restituire l’impressionante racconto di una provincia soffocata e soffocante, fatta di bisbigli, sguardi sfuggenti, cose non dette, cose non fatte, colpe non confessate nemmeno a se stessi. E ci viene il dubbio che quel labirinto nel quale il lettore è quasi costretto a smarrirsi non sia altro che la geniale, imprevedibile, terrificante versione in salsa maremmana di una nostrana Spoon River.
In questo disfacimento dove nulla è come sembra, e il malcontento serpeggia come un veleno sottile che tutto contamina e fa marcire, sembra non esserci salvezza, amore, redenzione. Se uno spiraglio esiste, forse sarà aperto dal protagonista più improbabile fra tutti: il reietto, l’escluso, il mostro.
O forse spiraglio non c’è. Come i personaggi del paese descritto da Naspini, noi, brava gente di provincia, siamo tutti persi nel marasma dei nostri impulsi, delle spinte inconsapevoli che plasmano il nostro destino, influenze misteriose come gli intrecci sotterranei che si nascondono negli anfratti e nelle cantine delle Case. Quando la luce del riconoscimento arriva, è solo un lampo, ed è sempre troppo tardi: il risveglio da questo sogno folle che è la vita non è altro che l’oscurità più profonda di tutte, quella irrimediabile e definitiva, quella dove le parole si smarriscono e si annullano, il tempo si ferma, l’urlo di dolore o di piacere si ammutolisce per sempre.