Ci sono quelli che quando raccontano, incantano; che se sei a una cena e loro parlano, si crea silenzio e li ascolti e magari ti sembra di conoscerla quella storia, almeno a grandi linee, ma così non l’avevi mai sentita e i personaggi li vedi nella tua tesra nitidi e chiari. Ecco, Massimo Cuomo è uno di questi e la e/o una casa editrice con un fiuto eccezionale per dare voce a questi fenomeni. Ho letto questi due libri diversi in tutto, come ambientazione, storia, atmosfere, ma entrambi capaci di catturarti dalla prima all’ultima pagina. C’è chi, quando scrive, usa immagini o colori. Cuomo crea un ritmo, un suono, una voce. Una musica che ti accompagna.
In ‘Piccola osteria senza parole‘ si sentono i rumori dei bicchieri e delle carte da gioco dentro un bar perso nella bassa veneta, dove, improvvisamente, irrompe uno straniero, uomo del Sud, diverso e distante. E tutto cambia, si trasforma: chi ha sempre vissuto aspettando gli alieni, ne incontra uno, o almeno crede, e se ne innamora; baristi apparentemente morigerati nascondono terribili segreti; pensionati con valigie chiuse trovano il motivo per aprirle e mostrare a tutti il mirabolante contenuto. E così via, come un’orchestra che aveva solo bisogno di qualcuno che desse l’avvio, un bassomeridionale, simile a Maradona, che beve solo Lemonsoda per depurarsi, non bestemmia perché ‘chi ha trasformato acqua in vino merita rispetto’. Ma anche lui ha i suoi misteri, racchiusi in una foto tagliata a metà in cui c’è una donna e un mezzo campanile. Con un finale che ribalta ogni aspettativa o percorso, questo libro corale non ha pause, rallentamenti o accelerazioni, ma viaggia su una strada ricca di curve improvvise e rettilinei, senza mai perdere la bussola. Una scrittura trascinante e coinvolgente, che sa di aria e vento.
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