Qualche mese fa mi è successo qualcosa: ho letto L’ultima volta che siamo stati bambini e scoperto, pare con imperdonabile ritardo, dell’esistenza di Fabio Bartolomei (qui l'intervista con l'autore). La folgorazione letteraria è stata tale che, spinta dal bisogno di fare ammenda, ho deciso di ripartire dall’inizio.
L’inizio è la Giulia, con i suoi miracoli. Anzi no, l’inizio sono ancora una volta tre personaggi indimenticabili. L’io narrante è Diego, che incarna lo stereotipo dell’uomo medio, in cui la medietà confina pericolosamente con la mediocrità: “altezza media, corporatura media, pancetta da quarantenne medio, occhi e capelli castani […]. Io sono il classico tipo che somiglia in brutto a un sacco di attori americani, più che altro di telefilm” (p. 24). Imprigionato in una vita irrisolta, di cui non è mai stato veramente protagonista e che pure gli calza bene addosso, l’uomo confessa senza nessuna remora di essere affetto da una “acutissima forma di ignavia camuffata da naturale senso di superiorità” (p. 26) che lo rende il venditore perfetto: riesce a intuire i desideri dei clienti, a compiacerli senza risultare viscido, ad aggiustare la verità illudendosi di non stare mentendo.
Diego è la voce lucida e disincantata della storia: si salva grazie all’ironia e ad alcuni lampi di consapevolezza che gli offrono accesso a una verità superiore, seppur appena intuita, e che aprono la strada al cambiamento. Accanto a lui – eppure inizialmente distantissimi – si muovono Claudio e Fausto. Claudio “vive in perenne stato d’allerta” (p. 12): ipocondriaco e paralizzato da mille paure (“delle pentole a pressione, delle crepe nei muri, dei temporali, degli elettrodomestici”, p. 12), è stato abbandonato da una moglie che gli ha preferito un uomo ben più virile e di cui continua a essere perdutamente innamorato, pur accettando di essere relegato in una umiliante posizione di buon amico. Fausto invece è il trionfo degli –ismi: egoista, sessista, fascista e razzista, si definisce “persuasore televisivo” (p. 17) quando si occupa di televendite di orologi difettosi.
Tre inetti, quindi, dalle vite completamente diverse, che potrebbero non incrociarsi mai se non fosse che tutti, in un modo o nell’altro, si trovano ad attraversare un momento di crisi e decidono di concedersi un’occasione di riscatto (o di fuga) rispetto a un’esistenza che inizia ad andare stretta. Per Diego la pietra d’inciampo è la morte di un padre ignorato in vita e riscoperto soltanto nell’accudimento degli ultimi giorni, per Claudio la certezza di essere l’unico responsabile del fallimento dell’impresa di famiglia avviata da oltre un secolo, per Fausto la necessità di saldare i debiti e allontanarsi da una situazione spinosa. Se il punto di partenza è comune, comune è anche la soluzione ipotizzata, che li porta a incontrarsi davanti a un delizioso podere campano dalle straordinarie potenzialità e un prezzo sospettosamente basso:
Siamo la generazione del piano B. Lavorare in questo paese fa così schifo che, anche se fai il miracolo di raggiungere la posizione per cui hai studiato, dopo due anni ne hai le palle piene e inizi a elaborare il tuo piano B. Quasi sempre si tratta di un agriturismo, questo quando allo schifo per il lavoro si aggiunge lo schifo per la città. È il miraggio di una vita migliore, più sana, con più tempo a disposizione. Più tempo per pensare e per scoprire che sei infelice lo stesso, che il lavoro non c'entrava un cavolo e nemmeno la città. Hai traslocato e la prima cosa che hai messo in valigia sono stati i tuoi problemi. E adesso te li ritrovi lì, sulla splendida collinetta immersa nella campagna incontaminata. Sogni il paesino dove tutti sono gentili e ti ritrovi circondato dagli stessi stronzi di sempre, con l'unica differenza che non puoi uscire di casa senza trovarteli sempre tra i piedi. Un cartello autostradale mi informa che la parola "Lazio" d'ora in poi va considerata un errore da barrare in rosso. Quella giusta è "Campania".
Nel momento in cui decide di “metter[s]i in società con un cafone e uno sfigato visti una volta sola” (p. 53), Diego non immagina la portata del guaio in cui tutti si stanno infilando. Un guaio che prevede la difficile coesistenza di individui dai caratteri opposti e apparentemente incompatibili, la ristrutturazione di un casale nella quasi totale assenza di fondi (e competenze), le bustarelle che tutti vengono a reclamare, una discarica abusiva e, dulcis in fundo, il sequestro in cantina di alcuni camorristi. Un guaio però che cambierà profondamente ognuno di loro, facendo di un gruppo di uomini falliti e soli qualcosa che assomiglia a una famiglia. Una famiglia allargata, perché al trio iniziale si aggiungono presto altri membri, comprimari che riescono ad avere lo stesso spessore umano dei protagonisti: Sergio, comunista di vecchia data, sindacalista e lavoratore, che non vuole piegarsi ai soprusi di chi comanda ed è disposto a tutto per difendere quella che ormai sente come “roba nostra” (ma sostituendo “roba” con “casa” il significato non cambierebbe); Elisa, che se la cava bene in cucina e coi massaggi, ha la lingua tagliente e non si risparmia mai una frecciatina polemica, ma nonostante questo riesce a farsi strada nella barriera impermeabile che Diego erige intorno ai suoi sentimenti; e poi Abu, Samuel e Alex, tre giovani ghanesi sfruttati per la raccolta dei pomodori nel campo confinante, e Vito, camorrista quasi suo malgrado e grande amante della musica classica. A lui appartiene la Giulia miracolosa, intorno a cui ruotano tutte le vicende e che è la matrice del successo del nuovo agriturismo, ma anche della trasformazione dei suoi abitanti. Perché Giulia 1300 è un romanzo di formazione, anche se di formazione tardiva: solo a quarant’anni i protagonisti crescono davvero, riorientano i propri valori in una giusta direzione e capiscono la necessità di lottare per ciò che è importante.
Ritrovo tra le pagine il tono lieve, l’ironia sottopelle, le riflessioni sociali opportunamente dissimulate, eppure sempre vibranti, che ho imparato ad apprezzare ne L’ultima volta che siamo stati bambini. È bello risalire a ritroso nel tempo per scoprirne in questo testo le origini. Quello che potrebbe essere letto semplicemente come una commedia leggera, piena di scene esilaranti, è in realtà un tentativo riuscito di offrire uno spaccato di una certa società, di un certo stato esistenziale, ma anche di una certa Italia, mostrandone le incongruenze e i nodi irrisolti:
[Vito] è sereno, beve con noi come se fosse uno del gruppo, il suo sguardo si è addolcito. [...] Forse la verità è terribilmente più semplice. Siamo abituati a ritenere che la mafia esiste perché c'è da sempre ed è imbattibile. Invece è molto peggio di come pensiamo, la mafia si può battere benissimo. La mafia non è capace di conquistarsi uno spazio proprio, sa prosperare solo dove la società lascia dei vuoti. Se le famiglie lasciano dei vuoti, se la scuola lascia dei vuoti, se lo stato lascia dei vuoti, la mafia conquista terreno. Il fatto è che anche la mafia lascia dei vuoti che possono essere riempiti. E in questo gioco di posizione la mafia dovrebbe essere perdente perché i suoi vuoti non li possono riempire solo la famiglia, la scuola e lo stato, basta molto meno, basta uno straccio di alternativa. Un agriturismo destinato al fallimento, per esempio. (p. 153)
L’abilità dell’autore sta nel creare un sottotesto diffuso che fa emergere la critica sociale più dagli eventi della trama che dalle esternazioni palesi dei personaggi, e in questo modo evita il pericolo dei facili moralismi e innesca non solo un pensiero più profondo, ma anche delle reazioni empatiche di commozione e sdegno nel lettore, reso totalmente partecipe delle sorti dei protagonisti. Se la situazione iniziale, in quello che viene chiamato opportunamente – anche se dopo varie discussioni – Casal de’ Pazzi, potrebbe essere quella di una barzelletta, come denuncia Fausto in toni forse non proprio ortodossi (“Che poi che c’è da ridere… un negro, un camorrista, due sfigati e un comunista del cazzo! Ma che è?”, p. 183), il principale tra i miracoli decantati dal titolo risiede proprio nel modo in cui questi elementi incongrui riescono ad assumere una forma armonica e coerente, perfettamente riuscita, di cui le sinfonie della Giulia 1300, che accompagnano lo svolgimento della trama, diventano in conclusione una meravigliosa metafora.